Boris Johnson è il nuovo leader del Partito conservatore. Ed è lui a succedere a Theresa May per la guida del Regno Unito.

Un voto che certifica due dati: il passaggio del centrodestra britannico verso una sorta di sovranismo in salsa british; la fine di una leadership fragile e ormai bloccata come quella May a favore di un leader nuovo, carismatico e soprattutto di rottura rispetto al passato più recente della Gran Bretagna. Il tutto con una stella polare: la Brexit, anche senza accordo. Perché da convinto sostenitore del leave, Johnson ha sempre lasciato intendere quale potesse essere il suo piano nei confronti dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Ed è appunto quello di un divorzio da Bruxelles a ogni costo: negoziato o meno.

Sia chiaro: il voto non è un voto di rottura come può essere stato quello di Donald Trump negli Stati Uniti o quello di altri leader “populisti” in giro per il mondo. L’elezione di Johnson alla guida del Partito conservatore e quindi a successore della dimissionaria May non equivale a un passaggio alle urne: è un voto politico di un cambiamento di leadership interno ai tories. Questo fa capire quindi come non si possano fare paragoni sul voto. Ma possono invece farsi paragoni e soprattutto parallelismi su come sarà guidata la Gran Bretagna. Che di certo ora potrebbe cambiare registro su diversi punti rafforzando quell’alleanza con gli Usa che, specialmente nelle ultime settimane, era sembrata incrinarsi proprio a causa dei tentennamenti della vecchia guida del partito rispetto alla Brexit e ad altri dossier: in primis l’Iran, la prima crisi che dovrà gestire l’ex ministro degli Esteri oggi guida del partito di governo.

Ed è proprio da questo confronto con Trump che può definirsi la nuova leadership britannica. Con un programma estremamente “populista” per i canoni inglesi, Johnson si presenta al suo popolo come chi deve far uscire Londra e dintorni da un’impasse politica creata anche dalla mancanza di volontà dell’ala più dura dei conservatori di schierarsi a sostegno di May nelle trattative con Bruxelles. Ed è significativo che Johnson, tra le sue prime dichiarazioni, abbia fatto proprio riferimento alla Brexit dichiarando che il suo governo farà uscire il Regno Unito dall’Unione europea il 31 ottobre. Con un “deal” o “senza”.

L’idea non piace ai suoi critici, che sommano questo piano anti Ue a una serie di critiche di stampo ideologico e culturale. Johnson non piace alla maggioranza dei media mainstream, consapevoli del fatto che sia una tipologia politica contraria ai canoni voluti da larga parte della grande stampa e dei partiti di riferimento. Non piace la sua idea sull’immigrazione, non piace la sua idea sull’Europa, non piacciono i suoi metodi. Ed è interessante che contro di lui si sia già scatenata una prima (già pronta a riesplodere) ondata di attacchi su presunti legami con la Russia di Vladimir Putin. Lui che in realtà si è sempre mostrato apertamente avverso al Cremlino, in questo distanziandosi anche dallo stesso Trump. E anzi, semmai è molto più plausibile che con lui si rinforzi ulteriormente la special relationship con Washington.

Un profilo che non piace quindi. Ma visti i risultati di coloro che vengono apprezzati, c’è da analizzare tutto con occhio lucido e critico. Forse in molti dovranno ricredersi: proprio come Oltreoceano. Perché se è vero che già iniziata la battaglia anti Johnson, tra chi lo definisce un clown per il suo passato da comico e chi lo accusa di essere già il “peggiore premier del Regno Unito”, c’è anche da riflettere su un fatto non irrilevante: se centinaia di migliaia di conservatori hanno votato a suo favore e se è riuscito a prendersi il partito, evidentemente sa dove puntare le sue carte.