Controcultura

Blasi e Nivola devoti alla loro madre Sardegna

Un ritratto classico e una sfoglia di marmo Opere diversissime ma figlie della stessa terra

Blasi e Nivola devoti alla loro madre Sardegna

La collezione di Stefano e Anna Pia De Montis è patrimonio imprescindibile per capire cosa siano stati l'arte e l'artigianato sardo nel corso del secolo che sancisce l'ingresso dell'Isola nella modernità: il Novecento. Troverete modo, nella mostra «Artisti di Sardegna nella collezione De Montis», sotto un comune soggetto sardo che coinvolge in particolare artisti del Sassarese e del Nuorese, di ammirare i sofisticati figurini della vamp Edina Altara e quelli in tessuto di eterne bambine come le sorelle Coroneo, il colorismo crepitante di Antonio Ballero come quello più controllato di Giovanni Ciusa Romagna e Mario Delitala, l'accademismo popolareggiante di Filippo Figari e il mondo rurale di Carmelo Floris in cui bontà di pittura e di soggetto vogliono essere unica cosa, alcune tracce dell'originale avventura post-cubista di Mauro Manca, il più propenso a tenere il passo con quanto succedeva «in continente», come gli isolani chiamano l'Italia. E ancora, l'inesauribile poliedricità déco, fra pittura, ceramica e illustrazione, dei fratelli bosani Melkiorre, Federico e Pino Melis, la compostezza atona di Bernardino Palazzi, il sopraffino talento plastico, stroncato anzitempo dalla guerra, di Salvatore Fancello, capace di continuare quello lampante e assoluto di Francesco Ciusa, i percorsi a ricamo, fra memoria, magia e sogno, di Maria Lai, i pupazzi di Eugenio Tavolara che non sono da meno delle coeve creazioni di Depero, solo per dire di alcuni artisti, oltre a costumi, gioielli, cesti, tessuti e terraglie artigianali di irresistibile attrattiva.

Mi preme ora accostare Teresita di Giuseppe Biasi e La madre sarda e la speranza del figlio meraviglioso di Costantino Nivola, opere esemplari di due protagonisti non solo dell'arte sarda, ma anche di quella nazionale.

Presentata alla Biennale di Venezia del 1920, Teresita è l'altra meniña rispetto alla Tetesedda (Ritratto di Maria Teresa Manca di Villahermosa) che Biasi aveva esposto nel 1919 presso la giovane, ma già prestigiosa, galleria milanese di Lino Pesaro accanto a opere di artisti del calibro di Wildt, Bonzagni e Alciati. Siamo nel mezzo del periodo milanese di Biasi, lontano dalla sua Sassari fin dal tempo della prima guerra mondiale, alla quale partecipa. A Milano, Biasi non si era di certo scordato la Sardegna. È lui a organizzare, nel 1917, una mostra di giovani artisti isolani - Altara, i Melis, Primo Sinòpico - alla galleria d'arte di Palazzo Cova che raccoglie l'attenzione di critici come Margherita Sarfatti, Raffaello Giolli e Vittorio Pica, in seguito curatore della mostra del 1919 alla galleria Pesaro. Fra le sue frequentazioni, quella di Javotte Manca di Villahermosa, nobildonna cagliaritana che aveva sposato un Bocconi, membro di una famiglia fra le più affermate della borghesia milanese, della cui omonima università diventerà la generosa mecenate. A Javotte e alla nipote Maria Teresa, destinata invece a una vita consumata per la maggior parte a Cagliari, Biasi dedica ritratti di particolare ispirazione, in costume tipico, anche se non è facile definirlo sardo, visto che lo spunto iniziale viene poi stravolto sotto i colpi di una fantasia quasi visionaria. A seguire, ecco la sorella, almeno ideale, di Tetesedda, Teresita, nome per la verità più diffuso in Lombardia che in Sardegna (era quello di una figlia di Garibaldi), anch'essa giovanissima e in costume ugualmente fantasioso.

C'è ancora il sapore della Vienna secessionista, quello a cui il Biasi delle mostre romane della Secessione aveva guardato con fervore. E c'è Velázquez, naturalmente, omaggio al primo e al più grande dei pittori moderni, padre spirituale dei costumbristi iberici che influenzano non poco il revival folclorico di cui Biasi si nutre. Ma c'è soprattutto la Sardegna più mitica in questa fanciulla che, come l'ancora più altera Tetesedda, si offre allo sguardo non certo come una popolana, ma come una sofisticata principessina di chissà quale reame esotico, orgogliosa del suo sperduto riserbo, splendente di orpelli che fanno risaltare l'arcaico scurore delle pelle. Una Sardegna che in quel momento Biasi doveva sognare e agognare, in attesa di poterci tornare stabilmente. Succederà di lì a non molto.

La sua partecipazione alla Biennale riscuote discreto successo, ma non tanto da convincere Pica a confermarlo nell'edizione del 1922. L'aria sta cambiando, Pica viene rimproverato di guardare troppo all'estero e all'arte italiana che più si adegua alle novità provenienti da oltre frontiera. Sarà Antonio Maraini, suo successore a Venezia, il primo a dare adeguato spazio al nuovo classicismo nazionale, nel frattempo affermatosi a Milano col gruppo sarfattiano di Novecento e a Roma con quello attorno alla rivista Valori plastici. Per quel tempo, Biasi è già tornato in Sardegna, ad affrontare nuove, formidabili imprese artistiche. Il centro è a casa propria, non altrove.

Quasi settanta anni dopo, ecco La madre sarda e la speranza del figlio meraviglioso di Costantino Nivola. Sarebbe limitante considerare «Antine» Nivola, fra i massimi scultori italiani degli ultimi cento anni, un artista sardo. In primo luogo perché in pochi, fra i coevi nazionali, hanno avuto un respiro internazionale come il suo, favorito dall'avere svolto la maggior parte della carriera a New York, dove era giunto nel 1939 per proteggere la moglie Ruth Guggenheim dalle persecuzioni fasciste contro gli ebrei. In secondo, perché Nivola, nativo di Orani, è barbaricino, che è cosa ben diversa dall'essere cagliaritano, sassarese o anche solo genericamente sardo: altra gente, altra natura, altra civiltà locale, con la pastorizia a dettare legge. Prima di trasferirsi in America, Nivola era stato anche lui a Milano, studiando all'Istituto statale per le industrie artistiche di Monza insieme a due amici barbaricini, il povero Salvatore Fancello di cui si è già fatta menzione e il grafico Giovanni Pintori.

Abbandona l'Italia da responsabile grafico dell'Olivetti, ruolo che in seguito sarà ricoperto dall'ottimo Pintori. In America, Nivola instaura una decisiva collaborazione col grande Le Corbusier, in sintonia con il linguaggio post-cubista, e mettendo a disposizione dell'architettura una tecnica decorativa di sua invenzione in cui il cemento viene colato su un telaio coperto da sabbia (sand casting). Immerso nella modernità più innovativa, Nivola se ne sente pienamente partecipe, ma non dimentica mai la sua terra, dove ogni tanto torna a lavorare, sentendola come un'infanzia, più ancora che propria, dell'intera umanità. Morto Le Corbusier (1965), Nivola indirizza la sua espressività verso un nuovo purismo formale. Dopo i primi abbozzi in terracotta di Lettini visti dall'alto, allegorici del sogno e del piacere, è con le figure femminili simbolizzate (Vedove, Madri) che la scultura di Nivola consegue un livello di compiutezza e raffinatezza singolari, ma accoppiando l'individuazione dell'archetipo, nello spirito di una reinvenzione dell'antica civiltà nuragica, a un nuovo senso della materia lustrata che riporta alla mente l'antropologia senza tempo di un altro Costantino, cioè Constantin Brancusi, precursore del Primitivismo astratto in tre dimensioni.

La madre sarda e la speranza del figlio meraviglioso appartiene a questa felice stagione creativa. È una delle tipiche, grandi «mante terrestri» con cui Nivola materializza l'eterno femminino, mettendolo in relazione con un luogo natale che la vita ha portato a fargli vedere da lontano, proprio come Biasi nel momento in cui dipinge Teresita. Una sfoglia di marmo, La madre sarda, estremamente sofisticata nella sua suprema, tattilissima, levigatezza che la morbida piega del lembo inferiore esalta in maniera virtuosistica, disumanizzata, se si facesse eccezione delle minime, commoventi allusioni a un capo e a un grembo pregno, nel segno di una rigorosa religione della forma che solo Brancusi o Hans Arp saprebbero emulare. Anche quello di Nivola è un sogno che rivela un desiderio, profondo come l'anima. In fondo si tratta sempre di Teresita, speranza di una terra in continua ricerca di una rinascita. Diventata adulta, anzi, cresciuta a tal punto da rinunciare alla condizione terrena, che pure la faceva così nobile e bella, per diventare entità appartenente al campo delle idee prime, forma assoluta reificatasi nel candore grumoso della pietra, con la gonna a campana che si è fatta corpo planare, assorbendo come un buco nero quanto più possibile al suo interno. È la Sardegna nella sua essenza più pura, madre e figlia di sé stessa, come un tempo poteva esserlo la punica dea Tanit. È la Sardegna di tante diverse Sardegne che nel suo mito forse vago, ma fortissimo, accomuna tutta intera la sua progenie sognante.

Ovunque si trovi.

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