Politica

Il "tradimento" in politica non porta bene

Di Battista accusa il leader della Lega di aver rotto il patto. E lascia Matteo con il cerino in mano

Il "tradimento" in politica non porta bene

I patti in politica non sono sacri, ma chi li rompe, spesso, paga pegno. Tutto questo Matteo Salvini lo sapeva, per mesi ha spinto il suo alleato di governo verso il «non ne posso più». Forse non ha previsto una cosa. Di Maio ha mostrato di avere una dote non difficile da immaginare: è un buon incassatore. Così, in un giorno d’estate, è stato Salvini a dire basta, con l’annuncio di una sfiducia a Conte, improvvisa, messa lì quasi d’istinto, come un colpo d’azzardo.

Ora, però, quella sfiducia poggiata sul tavolo come una pistola sembra non avere proiettili. È scarica. Il risultato è che il leader della Lega si ritrova spalle al muro e con l’accusa di tradimento. È così che lo chiama Alessandro Di Battista: «Il ministro del tradimento». Qualcosa non ha funzionato. Non importa che sia vero o no. Salvini può dire che il contratto di governo non aveva più senso. Il guaio per lui è che è rimasto con il cerino in mano. È l’uomo del disordine, quello che si defila o va a incassare il malloppo di voti alla vigilia di una manovra economica ricca di insidie. È sotto accusa come voltagabbana, senza avere uno straccio di scusa per fare saltare il governo.

Questa avventura spericolata, cominciata con il contratto innaturale tra due forze politiche poco affini, finisce per pagarla lui. Il futuro magari gli darà ragione, ma certi salti senza strategia non portano fortuna. Non ne è uscito più forte Renzi, bollato dallo «stai sereno» sulla guancia di Enrico Letta.

Non è andata bene a Gianfranco Fini, quando, per un errore di calcolo, pensò di indossare un vestito antiberlusconiano. Fu ingannato dalla «scossa» giudiziaria evocata da D’Alema e scommise su quel «che fai, mi cacci?» come passaporto per una riabilitazione a sinistra. La scommessa era costruire una destra diversa, che però s’infranse contro la delusione dei suoi elettori di riferimento e sul muro della casa di Montecarlo. Lì, Fini, oltre al «tradimento», ci mise anche una patetica serie di bugie, promesse non rispettate, complicità nascoste e affari di famiglia che lo fecero passare in una stagione da «furbastro» a «coglione» (per sua stessa ammissione). È così che dell’uomo della svolta di Fiuggi non è rimasto che qualche brandello di voti. È scomparso, sconfitto da una macchia indelebile: non avere più credibilità.

La rottura dei patti non ha portato bene ad Alfano, che ha pagato fino in fondo il governo dei responsabili con Enrico Letta e poi l’alleanza con Matteo Renzi. Massimo D’Alema si ritrovò a giustificarsi per il tranello contro Prodi, candidato al Quirinale: «Non fu colpa mia». Tutto sta nel senso di una telefonata tra i due. Per D’Alema era un consiglio amichevole, per Prodi una mezza minaccia. «Quel giorno - ricorda il Professore - ho messo giù il telefono, ho chiamato mia moglie e le ho detto che certamente non sarei diventato presidente della Repubblica». Non era la prima volta. Nel 1998 D’Alema diventa capo del governo con un sottocolpo da maestro. Bertinotti, segretario di Rifondazione Comunista, abbandona Prodi. D’Alema va a Palazzo Chigi con l’appoggio dei centristi di Mastella. È di fatto la fine dell’Ulivo.

È il dicembre del 1994. Umberto Bossi contesta a Silvio Berlusconi la riforma delle pensioni, e l’altro lo attacca frontalmente in tv. Allora Bossi reagisce dicendo che l’alleato non sta rispettando i patti sulla riforma del federalismo, punto centrale per la Lega. Forse Bossi teme anche di essere schiacciato dal peso di Berlusconi, forse teme di perdere autonomia. Sta di fatto che il capo dei leghisti, insieme a D’Alema e Buttiglione, sigla il «patto delle sardine». Il governo Berlusconi non ha più la maggioranza. Oscar Luigi Scalfaro affida al «berlusconiano» Lamberto Dini l’incarico di formare un nuovo governo di centro-lega-sinistra.

La Seconda repubblica è stata il regno dei ribaltoni. Questa nuova stagione politica vaga ancora di più nell’incertezza dei patti di governo. Come si fa a parlare di tradimento quando tutto è così fluido? Salvini era al governo con i grillini, ma nelle Regioni sta con Berlusconi e la Meloni. Gli stessi grillini, sacerdoti della purezza, ora tramano per un governo di scopo con Renzi che, a sua volta, intriga contro Zingaretti che, da parte sua, ricerca sponde alla sinistra cinquestelle e non disdegna accordi tattici con Salvini.

Tutti insieme a tradire con quel che resta della democrazia.

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