Personaggi

Luria, padre (ribelle) della virologia

Allievo di Levi, come Dulbecco e Montalcini, lavorò con Fermi ma non volle collaborare all'atomica. Si occupò di cancro e genetica

Luria, padre (ribelle) della virologia

Tutti abbiamo pronunciato almeno una volta la parola «virologo». Ma, nonostante la pandemia, non tutti sanno che il «padre» della virologia - il ramo della biologia che si occupa di studiare i virus - è un italiano: Salvatore Luria. Anche noto come Salvador Edward perché, quando sbarca a New York, in fuga dai nazisti, muta il suo nome, togliendo una «e» alla fine e trasformandola nell'iniziale di un nuovo, secondo nome dal suono anglosassone... È a Salvador Edward Luria, ormai naturalizzato americano, con i colleghi Max Delbrück e Alfred Hershey, che viene assegnato il Nobel per la medicina nel 1969, «per il loro contributo alla conoscenza dei meccanismi di replicazione e della struttura genetica dei virus».

Salvatore Luria nasce a Torino il 13 agosto 1912, in una famiglia ebraica che attribuisce particolare importanza all'elevazione intellettuale come tramite di quella sociale, perciò frequenta un ottimo liceo, il Massimo D'Azeglio, dove trova un insegnante di filosofia e letteratura che lo segna per tutta la vita con il suo esempio: Augusto Monti, azionista, antifascista, amico di Gobetti e Gramsci, che incarna quel legame tra impegno della mente e impegno nella società che sarà una costante della vita di Luria, come racconta bene Rena Selya nella sua biografia Salvatore Luria. Un biologo italiano nell'America della Guerra fredda (Cortina editore). Si iscrive a Medicina per accontentare i genitori e finisce nel prestigioso laboratorio di istologia di Giuseppe Levi: è qui che conosce altri due specializzandi, che si chiamano Rita Levi Montalcini e Renato Dulbecco... I tre diventano amici, continuano ad aiutarsi anche Oltreoceano e vincono tutti e tre il Nobel (per la fisiologia o la medicina): Luria appunto nel 1969, Dulbecco nel 1975, Levi Montalcini nel 1986.

Le coincidenze non finiscono qui: Luria decide di specializzarsi in radiologia, complice l'amico fisico Ugo Fano, che lo aiuta a trovare un lavoro presso il laboratorio di Enrico Fermi a Roma. Così può unire due passioni: la medicina e la fisica. È a Roma che scopre i primi lavori sui batteriofagi, i virus dei batteri, che sono il cuore di tutta la sua ricerca. A causa delle leggi razziali, nel 1938 si trasferisce a Parigi, dove lavora all'Institut du Radium fino all'invasione nazista della Francia: fugge in bicicletta la notte prima che i tedeschi entrino nella capitale. È l'estate del 1940 e per un mese, fra treni e due ruote (e un rifugio in una fattoria con Carlo Levi), Luria attraversa la Francia per arrivare a Marsiglia, dove la sua salvezza è il transatlantico Nea Hellas: sbarca a New York con 52 dollari e va da Fermi. «Però anche in America Luria è un rompiscatole... Non vuole aiutare l'amico Fermi nella costruzione della bomba atomica, è un pacifista, un femminista, un sindacalista. Scende in piazza contro la guerra del Vietnam, è in difficoltà con l'Fbi per la sua amicizia con Bruno Pontecorvo e nel 1969, l'anno del Nobel, è uno dei 48 scienziati americani sulla lista nera» racconta Fabrizio Pregliasco, virologo di oggi, autore di numerosi saggi sulle malattie infettive, fra cui il recente I superbatteri (Cortina editore). Insomma Oltreoceano Luria non perde il suo carattere: scienza e politica, meglio ancora, scienza al servizio della politica, intesa come comunità. Il culmine è quando, nel 1972, fonda l'Istituto per la ricerca sul cancro del Mit di Boston, attirando una serie di futuri Nobel. In quel momento Luria è già un'istituzione della scienza del Novecento: «L'idea che lo ha portato al Nobel gli è venuta osservando una slot machine: il caso e la necessità. Fino ad allora era noto il principio dell'evoluzione darwiniana, ma non come la selezione funzionasse davvero; lui dimostra la correlazione fra genetica ed evoluzione utilizzando i fagi, i virus dei batteri: i virus dei batteri vanno incontro a delle mutazioni, anche frequenti, e quelli avvantaggiati dalla selezione sono quelli capaci di fregare i batteri». Lo stesso dicasi per i batteri: a fronte delle mutazioni casuali, i batteri premiati dalla selezione sono quelli più resistenti ai fagi, cioè quelli che resistono meglio alla pressione ambientale. Caso e necessità, appunto. «Questa scoperta lo rende il padre della virologia: per la prima volta pone l'attenzione a questa componente del mondo, i virus, che chiama batteriofagi - dice Pregliasco - Ed è anche uno dei padri della biologia molecolare, perché pone l'accento sull'importanza di conoscere la sequenza genetica» dei virus. Fin dall'inizio, nel lavoro di Luria «virologia e biologia molecolare sono correlate, il che ha avviato lo sviluppo delle tecniche diagnostiche, che oggi ci consentono delle risposte così rapide». Grazie alle sue conoscenze di matematica e di fisica, applica un «test di fluttuazione» alla biologia e comprende i meccanismi genetici che regolano la replicazione e la struttura dei virus: non a caso, quando insegna all'università dell'Indiana, il suo primo allievo a laurearsi è un certo James Watson, che poi vince il Nobel per la scoperta del Dna...

«Luria è un esempio molto moderno di contaminazione fra biologia, matematica e fisica - spiega Pregliasco - È fondamentale per la scienza anche per questo approccio trasversale, che spalanca la conoscenza dei meccanismi dell'azione e dell'evoluzione dei virus e dei batteri. Poi queste ricerche faranno enormi progressi, ma lui ne è l'apripista». Si occupa anche di enzimi di restrizione: «Servono per governare la replicazione del genoma, funzionando come forbici personalizzate, quindi lo sviluppo della conoscenza di questi enzimi è fondamentale per la genetica». Genetica e studio dei virus per Luria sono tutt'uno: «La genetica è alla base della classificazione e dello studio dei virus, perché non li vediamo - conclude il virologo - Quindi individuare i meccanismi di replicazione e la sequenza genomica è fondamentale. Per questo Luria è stato importantissimo, su tutti i fronti».

Perfino nell'anticipare il successo della non fiction: da docente di biologia al Mit, alla domenica, con la moglie Zella, tiene dei seminari su letteratura e scienza a casa sua a Lexington (dove muore, nel 1991) e nel 1974 vince il National Book Award con il suo saggio La vita: un esperimento non finito.

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