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"Amo la sofferenza dei cactus. È la loro bellezza profonda"

Medico e pittore, ha creato ad Anzio una delle più preziose collezioni europee di piante grasse: "Sono specie in guerra con la natura"

"Amo la sofferenza dei cactus. È la loro bellezza profonda"

La passione comincia con una gita a Montecarlo, da ragazzo. «Ero con un gruppo di signore, fra cui mia mamma, che giocavano a canasta, così nel frattempo io giracchiavo per le vie, guardavo quelle ville bellissime... E a un certo punto lessi un cartello minuscolo: Giardino esotico. Seguii la freccia e mi trovai davanti un giardino a picco sul mare, con esemplari di piante straordinari. Girai lì per tutto il giorno e, da allora, mi misi in testa l'ambizione di ricreare questa stessa cosa in una villa degli anni Trenta che era del nonno, ad Anzio, dove c'era una giardino abbandonato...». Da quel giardino abbandonato, nel corso di tanti anni e tanti ostacoli, Agostino Muratori ha creato un luogo unico, dove vivono i suoi cactus e i suoi bonsai: una meravigliosa Collezione di spine, come si intitola il suo delizioso memoir (Bompiani) che «intreccia quadri, medicina e piante» (lo ha anche illustrato) e che Muratori ha dedicato alla «Vita di un giardino». Il suo.

Facciamo un passo indietro.

«Sono nato nel '45 a Roma, in una famiglia di medici».

E lei?

«Anche io ho fatto il medico, è la professione che mi ha dato il pane. Ma tutto il resto me l'ha dato la pittura».

Medico e pittore?

«Ero internista in ospedale, poi primario, ma sono andato in pensione presto per dedicarmi alle altre mie attività: la pittura, e la cura di questo giardino».

Alla pittura quando ha iniziato a dedicarsi?

«La prima mostra è stata nel '74-'75, ma l'avevo fatta così, per far vedere i quadri, invece la gente ha iniziato a comprarli... Ho lavorato dodici anni con i Fratelli Russo, poi sono passato alla Ca' d'Oro. Io faccio una pittura figurativa, rara oggi, in cui do uno sguardo al passato, dall'antico Egitto agli anni '30-'40».

Lo sfondo è sempre storico?

«Mi piace ricreare eventi della storia di Roma, di Venezia, di Napoli. Amo da sempre l'elemento scenico, il fatto di assemblare i quadri come un teatro. E lo stesso avviene col giardino. Amo anche miniaturizzare, per me è un gioco: quando ero di guardia dipingevo su delle tavolette, fra una chiamata e l'altra».

Com'era la vita in ospedale?

«La amavo, ma non era quella di adesso, fatta di pezzi di carta e computer. Ci sono i protocolli, è tutto diverso».

Come ha imparato a dipingere?

«Da autodidatta. Ho sempre avuto un mio stile e, per quarant'anni, la mia vita è stata una ricerca ossessiva delle soluzioni di cui avevo bisogno. E questo si riallaccia al giardino: ho cominciato per conto mio, ho fatto un sacco di errori ma, piano piano, ho tirato fuori una cosa quasi unica».

Com'era il giardino del nonno?

«Era un giardino all'italiana, in stile razionale, bello. Morto il nonno, è diventato terra di conquista per noi ragazzi: fra battaglie, tennis e fortini era quasi una selva. E poi, prima con la passione per le piante grasse, poi per i giardini giapponesi, l'ho trasformato, non senza una certa ritrosia da parte degli altri cugini».

È nato così?

«Così, come un quadro, un puzzle. A pezzetti. Volevo ricreare alcuni degli habitat che avevo visto nei miei viaggi: Yemen, Florida, Nevada, Arizona, i deserti del Sud America».

Come ha trovato le piante?

«Alcune da altri collezionisti sparsi in Europa, perché in Italia ce ne sono pochi, due o tre. Sono diventato amico del direttore dell'Orto botanico di Montecarlo, che mi dava gli scarti. Ci sono le aste di piante in Olanda, gli scambi fra collezionisti, i semi trovati in giro... Poi le piante devono iniziare ad acclimatarsi, alcune si riproducono, altre vanno perse. Amo le piante che qui non dovrebbero riuscire a sopravvivere, quelle che, con tenacia, negli anni si sono ambientate: ho circa cento specie che qui, ad Anzio, non dovrebbero starci».

Ci sono ancora piante del nonno?

«Sì, tante, quelle vecchie, le più belle come lecci e pini. E poi mi è venuta la passione per i bonsai».

In totale di quante piante parliamo?

«È difficile rispondere. Avevo provato a contarle 15 anni fa ed erano circa trecento specie, di cui alcune si sono perse, ma quelle che si sono ambientate sono stupende. Ormai non ho più posto, devo sfoltire. Servono 40 anni per fare un giardino: venti per crearlo e venti per sfoltirlo».

Parliamo di cactus.

«Sono tante famiglie, noi le chiamiamo succulente. Vivono in ambienti estremi, dove le altre piante difficilmente sopravvivono e già questo, per me, desta interesse: portano addosso le cicatrici di questa battaglia con la natura, la siccità, i terreni drenabili...».

Che significa?

«Il cactus non deve rimanere bagnato più di due o tre giorni, poi fa una riserva di acqua e comincia un periodo di sete che, nei casi estremi, può durare anni, come nel deserto di Atacama, dove piove magari ogni uno o due anni. Sono piante abituate a combattere con gli elementi e hanno forme caratteristiche, le spine, certi colori. Dormono a lungo, all'improvviso si risvegliano con fiori dalla vita brevissima, poi tornano in letargo, come gli animali che vivono con loro, la lucertola dell'Arizona, gli uccelli che scavano i nidi nelle compagini dei cactus, i buchi da cui spuntano gli occhi delle civette nei deserti degli Stati Uniti, i serpenti, i coyote, i lama... Specie che sopravvivono con poco».

È questo ad affascinarla?

«A me questo fatto dell'eterna battaglia fra natura e pianta ha sempre interessato, e ho cercato di ricreare questi ambienti un po' estremi, anche se qui poi piove: allora sotto le radici ci sono dei drenaggi, per non far ristagnare l'umidità e rischiare che le radici si fracichino, e poi la pianta muoia».

Quali piante impossibili è riuscito a far ambientare?

«Un Adenium obesum, o rosa del deserto, caratteristica dello Yemen e della Somalia, che qui non campa mai, e a me è vissuta 15 anni, anche se poi mi ha lasciato. Ho i semi però, sto provando con le figlie. Per prenderla mi arrampicai in una zona montuosa: l'autista, uno yemenita, credeva fosse allucinogena».

Viaggia per trovare le piante?

«Non etichetto mai i viaggi per le piante, se no non viene nessuno. Però rubo con gli occhi, e con le mani qualche volta, qualche seme...».

Poco tempo fa si è parlato di traffico di cactus.

«Ah, gli appassionati non si stupiscono. Nelle grandi collezioni ci sono piante pulite e piante chiacchierate, alcune arrivate con tutti i crismi e altre con delle scorciatoie. Anche quelle che si trovano negli orti botanici, a volte, prendono vie traverse».

Anche nel suo?

«Le mie piante hanno tutte la cittadinanza italiana, ormai...»

I cactus sono un po' un ibrido fra pianta e animale?

«Hanno aspetti che li accomunano agli animali e, a volte, assumono forme ancestrali. Perciò sono amati da pochi: non sono belli, ma hanno quest'aria battagliera».

Il cactus soffre?

«Dalle forme e dalle cicatrici non sembra fare una vita comoda ma, senza la sofferenza, non avrebbe quell'aspetto, che è la sua bellezza. A me i giardini normali, dove è tutto bello e fiorito, non interessano. Anche le altre piante del mio giardino, come le Cicadine, hanno una vita non semplice».

Da dove vengono?

«Sudafrica, Messico, Australia. Sono piante dell'epoca giurassica, i dinosauri se ne cibavano e hanno un aspetto simile ai cactus. Ne ho esemplari centenari, di una bellezza... Hai la sensazione di calarti in un'altra epoca. Ogni giardino ha il suo sapore, quello del mio è che entri e ti dici: ma dove sto?»

Quante specie spinose ha in giardino?

«Circa ottanta».

Anche rare?

«Sì, molto. Alcune che si trovano pochissimo anche in natura, distrutte dai cambiamenti provocati dalla cosiddetta civiltà che avanza... Forse la più rara è una Lophophora, che i messicani chiamano peyote: è rara perché nei luoghi d'origine è proibito tenerla, per le proprietà allucinogene. In Perù e in Messico i curanderos succhiano il peyote, poi hanno le visioni e ti predicono il futuro».

Ha piante particolarmente difficili?

«Molte, molte. Per via del clima umido le abituo in serra, poi fuori preparo delle terre particolari e i drenaggi. Tutti i giardini sono costellati di soddisfazioni e di perdite».

Di quali è più orgoglioso?

«Le Joshua Tree del deserto del Nevada, poi tre tipi di Cicadine, i Dioon del Messico e la Xanthorrhoea, o Erba del fuoco dei deserti rossi australiani, che è ignifuga e dopo gli incendi i suoi tronchi rimangono neri, bellissimi».

C'è qualche pianta che sogna?

«Tante. Dovrei fare un altro giardino... Vorrei avere un'altra rosa del deserto, di quelle grandi».

Lei ha ricevuto anche una grossa eredità.

«Da Fricker, un grande collezionista, che aveva un giardino al Giglio e propose le sue piante all'Orto botanico di Roma, che le rifiutò e gli suggerì dei nomi, fra cui il mio. Mi presi le piante e alcune le ho ancora. Lui era un alsaziano, un traduttore, molto colto, con questa grande passione. Adorava la Sierra Madre e aveva girato il mondo, ma era un'altra epoca, lui quasi ci parlava, con le piante».

Lei non parla con le piante?

«No. Le osservo, e guardo come stanno. Magari mi va di accarezzarle, anche se hanno le spine».

Non si punge?

«A volte».

Nel giardino che cosa bisogna fare?

«Innaffiare. I bonsai richiedono tempo. Ai cactus ci pensa madre natura ma vanno osservati ogni giorno, per capire se ci siano dei problemi: e allora devi innaffiare, così puoi intervenire per tempo. Con gli spruzzi automatici non vedi i problemi. Io di automatico non ho niente. Ho tre persone che mi aiutano e un giardiniere, ma non prendono mai iniziative».

Quanto tempo ci vuole per innaffiare?

«Un paio d'ore».

Invece potare?

«È scolpire. Amo che il fusto e i rami prendano le sembianze del clima e della vita vissuti dalla pianta, li chiamo la colonna vertebrale, e mi piace metterla a nudo. Solo dopo viene la chioma, che altrimenti copre tutto».

Il bonsai com'è?

«Un discorso continuo con la pianta, un dare e avere nel piccolo spazio: un piccolo albero che ha bisogno di poco, ma ha bisogno di tutto. L'opposto del cactus. È come calarti in un mondo microscopico, una pianta centenaria in uno spazio di 40 centimetri».

Un giardino è mai finito?

«No. I giardini sono una cosa viva e tutti gli elementi crescono, vivono e muoiono insieme a chi li cura; per loro fortuna possono vivere anche più a lungo, ma devono trovare chi se ne occupi...»

In famiglia c'è qualcuno?

«Nessuno. Solo mio nipote ha un certo occhio».

Strumenti del mestiere?

«Ognuno ha i suoi e se li fa da solo, paletti, tronchesi, attrezzi per entrare fra le piante senza danneggiarle. E poi ho mal di schiena e alle ginocchia fisso, i segni del tempo e delle fatiche li porto addosso».

Entra nel suo giardino e prova...?

«Una cosa strana. Apro il cancello, c'è un viale grande, guardo e mi accorgo subito se anche un solo ramo è stato spostato. Vedo sempre una cosa che va fatta. Se accumuli i difetti, addio».

E dal punto di vista dell'emozione?

«Ci sono ore particolari, quando la luce inizia ad abbassarsi e, quasi rosata, passa sotto le chiome, attraversa i rami, allora io mi metto sulla sdraio, guardo che cosa fa questa luce ed è una scoperta continua. E poi c'è l'odore».

Com'è l'odore?

«Ogni giardino ha il suo.

Il mio è un misto, da quello di umido a quello secco, del deserto, fino all'aria rarefatta: in piccolo riesci a sentire tutti questi odori, ed è una cosa molto affascinante».

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