Arte

È un Padiglione Italia di periferia

Un solo autore (e marginale) a rappresentare il Paese: una triste scelta di retroguardia

È un Padiglione Italia di periferia

l museo più scassato d'Italia, il Pecci di Prato, con la mostra di Massimo Bartolini, a cura di Luca Cerizza, vista da meno di cinquemila persone, è stato il laboratorio delle prove tecniche per il Padiglione Italia della prossima Biennale di Venezia. La commissione che ha selezionato il progetto del binomio critico-curatore/artista, ha ritenuto di offrire al ministro un bollito di idee presentate nel 2022 a Prato, sotto la denominazione «Hagoromo», che dovrebbero rappresentare l'Italia nel 2024. L'Italia e la sua creatività. Con tutto il rispetto per i ripetenti accoppiati, l'Italia è altro, e molto di più.

Ed è difficile contenerla nello sforzo dell'artista, ben riassunto da Laura Cherubini: «nel lavoro, che gravita intorno al tema antico dell'abitare, di Massimo Bartolini c'è una tradizione di pavimenti mutanti: c'è il pavimento oscillante (1994); quello rotto da due chiavi di violino (1993); c'è il pavimento rialzato che ingloba in sé l'arredo (1993) e quello che semplicemente procura allo spettatore un minimo spiazzamento (soffitto troppo basso, posizione alterata delle finestre, British School, Roma 1997); c'è il pavimento a occhi chiusi (De Carlo, Milano, 1997), nato dall'idea di camminare sulle palpebre di un gigante, costituite da due veneziane in legno (in un lavoro alla British School le finestre sono gli occhi della stanza); c'è infine il pavimento-molo (Casa del Masaccio, San Giovanni Valdarno 1998) rialzato e impercettibilmente vibrante, proteso verso lo spazio cosmico proiettato da un salvaschermo... Tutta l'opera di Bartolini è permeata da un forte sentimento dell'abitare: le sue stanze con gli angoli arrotondati (dove due frecce-cursori si muovono al ritmo di un assolo di batteria; dove il cielo di un salvaschermo si proietta su un tavolo; dove due finestre si aprono facendo entrare il suono di una radiolina alimentata da pannelli solari) nelle quali si perde il senso dell'orientamento, portano il titolo di Head, testa. Questa analogia è evidenziata in Head n.3 (Library) dove all'ingresso in una biblioteca si accompagna il suono dell'accensione di un computer che comanda la variazione dell'intensità luminosa.

Difficilmente rappresentabile come «opera d'arte», l'attività di Bartolini è chiamata, come spesso accade in presenza di elaborazioni complesse, e non semplicemente artistiche, «il lavoro». Non si direbbe per Jenny Seville o per Anselm Kiefer. E sia. Ma anche senza l'iperbole del mio padiglione del 2011, con oltre 300 artisti segnalati da scrittori, filosofi, pensatori europei, da Dario Fo a Wim Wenders, da Marc Fumaroli a Umberto Eco, da Tahar Ben Jelloun a Giorgio Agamben, da Riccardo Muti a Gianni Vattimo, da Alvar Gonzáles-Palacios a Ermanno Olmi, occorre chiedersi perché alle Biennali di Berlino, Lione, Istanbul sono presenti decine di artisti della nazione ospite, trenta, quaranta, cinquanta, e alla Biennale del Withney, solo americani, mentre in Italia solo uno.

Possiamo dire, senza polemica, che Cerizza e Bartolini da soli non sono l'Italia, in un padiglione periferico e tanto grande. Il Padiglione Italia a Venezia deve naturalmente tornare al centro della mostra. È da tempo, non so con quale opposizione, che il padiglione italiano dovrebbe essere quello centrale, nei giardini: senza essere nazionalisti, dico che siamo un Paese importante per l'arte ed abbiamo un Padiglione che sta nel buco dell'universo: è un padiglione bello, io stesso a suo tempo l'ho caricato di tante opere, ma viene dopo Malta e dopo la Thailandia. Invece dove ci sono l'Inghilterra, la Francia, la Germania, la Spagna, gli Stati Uniti, noi non ci siamo. Mi pare che l'essere lì, dove eravamo, significherebbe essere al centro del mondo, come deve essere.

Non mi piace pensare che il Padiglione 2024 divenga un nuovo Padiglione Tosatti, in cui un artista dispone dello spazio come vuole: è una visione unilaterale, mentre il progetto deve essere espressione di qualcosa di più complesso. E poi perché, ancora una volta, una mostra d'arte senza pittori e scultori, ma pavimenti e computer e tubi? Camillo Langone, che ha rappresentato questo destino nella mostra «I censurati» al Vittoriale, lo ha detto in modo eloquente: «Quale arte racchiude l'identità italiana? La pittura. Qual è l'arte preferita in tutto il mondo? La pittura. Quale arte attira maggiormente il pubblico alle mostre, alle aste, nei musei? La pittura. Quale arte è originaria, inestinguibile, eterna? La pittura. Quale arte glorifica la vita, l'essere umano? La pittura. Quale arte rende meglio su internet? La pittura. Quale arte hanno scelto la maggior parte dei nostri artisti da Cimabue ai ragazzi appena usciti dall'Accademia? La pittura. Chi ha messo il governo patriottico a capo del Padiglione Italia della Biennale 2024? Un nemico della pittura. (La storia si ripete: la Dc interessata soltanto al potere abbandonò la cultura ai comunisti, i Fratelli d'Italia interessati non ho capito a cosa abbandonano l'arte ai nichilisti)».

Comunque vada, la proposta di Cerizza è rispettabile, come «il lavoro» di Bartolini, ma il padiglione dovrebbe allargare i suoi confini. Perché non vedere artisti valorosi sempre esclusi, diversamente da Bartolini, come Rossana Rossi, Luigi Serafini, Giovanni Gasparro, Riccardo Mannelli, Enrico Robusti, Giovanni Nonnis, Bertozzi e Casoni, Lino Frongia, Filippo Martinez, Livio Scarpella, Giuseppe Bergomi, Giuseppe Ducrot, Jago, Sergio, Tullio Pericoli, Cesare Inzerillo, Giovanni Iudice, Emanuele Giuffrida, Stefano di Stasio, Aurelio Bulzatti, Margherita Manzelli, Roberto Ferri, Marco Ferri, Gaetano Pesce, Lorenzo Mattotti; e, aggiungo, l'arcipelago sempre sommerso, dei disegnatori di fumetti? Perché l'Italia deve restringersi a una proposta che non può rappresentare la nazione più ricca d'arte e di talenti creativi del mondo? Ho tentato di esprimere al ministro questa complessità.

Mi auguro che valuti la gravità della situazione, e non mi lasci alla consueta battaglia solitaria.

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