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L’opposizione punta tutto sull'Auditel e incolpa la destra di volere Ranucci e Sciarelli

In assenza di una reale opposizione politica, con un governo con il vento dei sondaggi in poppa, le riforme incardinate, lo spread quieto e le agenzie di rating che strizzano l'occhiolino, alla sinistra non resta che attaccarsi al telecomando

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In assenza di una reale opposizione politica, con un governo con il vento dei sondaggi in poppa, le riforme incardinate, lo spread quieto e le agenzie di rating che strizzano l'occhiolino, alla sinistra non resta che attaccarsi al telecomando. Capiamoci bene: non è né una resa, né una ritirata. Semmai è qualcosa di più simile al riflusso di inizio anni ottanta, solo che in questo caso dalla dimensione politica non si passa a quella privata, ma a quella catodica. Non potendo battere il nemico alle urne ci si ritira nella guerra dell'Auditel. Persi gli elettori ci si consola con gli spettatori. Basta vedere tutta l'animosità che percuote il corpo sociale e intellettuale della galassia progressista quando si parla di ascolti. Il nuovo Capitale è la guida tv. Un tempo discettavano di curve di sviluppo capitalistico, adesso le uniche curve che interessano sono quelle degli ascolti, che vengono compulsate ossessivamente come i risultati elettorali appena usciti dal Viminale. Prima erano tutti raffinatissimi esegeti del pensiero di Karl Marx, ora sono tutti Aldi Grassi. E, sia chiaro, è meglio per tutti noi. Ma fa un po' ridere. In questo campo si scarica tutto il revanscismo di una parte politica abituata sempre a comandare - anche quando non vinceva - e comunque a piacere e piacersi. Ora il nemico è solo uno, TeleMeloni. Che, tra parentesi, non esiste neppure. O meglio: è l'effetto che gli fa non avere più il predominio assoluto e privato della televisione pubblica. Abituati a lottizzare anche il monoscopio ora si sentono spiazzati.

Così a giudicare da titoli di giornali a nove colonne, aperture di siti e tam tam social, la più grande vittoria della sinistra negli ultimi mesi - festeggiata con un'enfasi paragonabile a quella di battaglie storiche come il suffragio universale, le otto ore lavorative, il diritto di sciopero, l'abolizione della pena di morte, il divorzio e l'aborto - è stata la debacle televisiva di Pino Insegno. Una sorta di capodanno sensoriale per il mondo radical chic. Seguito solo dai risultati non esaltanti di Nunzia De Girolamo. Anche in questo caso, tra gli intelló, festeggiamenti scomposti e caroselli con le lingue di Menelik come a una finale dei Mondiali. Senza neppur aspettare - come consiglierebbe il buonsenso - che un programma si stabilizzi e convinca il pubblico. No: al primo flop subito in alto i calici, convincendosi di leggere tra le righe dell'audience la preview di chissà quale rivincita. Non solo. L'ultima accusa alla Meloni è talmente delirante da essere una non accusa, anzi lambisce il complimento: in Rai i programmi più visti sono quelli che esistevano già prima del governo di centrodestra. Che, detto diversamente, significa che il governo fa lavorare chiunque.

A patto che funzioni. Un principio di mercato e di libertà che, evidentemente, a sinistra sembra blasfemo. Dunque diventa una colpa anche che programmi come Report e Chi l'ha visto, guidati da due giornalisti non certamente di destra, siano tra i più seguiti della televisione di stato. Come se il loro successo fosse una rivendicazione della superiorità politica di una parte e non, più logicamente, il risultato di una storia decennale e di un pubblico fedele e in alcuni casi militante. Ma la nouvelle vague è questa: hasta lo share siempre.

È l'opposizione da telecomando.

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