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Addio alla Smart ForTwo: la fine di un mito eterno

Piccola ma adatta a tutti, dopo 25 anni di successi a marzo termina la produzione della due posti

Addio alla Smart ForTwo: la fine di un mito eterno

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Illusionista e cialtrona. Impertinente quanto pratica. Diciamo la verità: quante volte, se non abbiamo avuto la fortuna, sì, proprio quella fortuna che toglie dagli impicci, di possederne una, l’abbiamo invidiata, in questi 25 anni. Illusionista, perché, arrivando con la nostra auto «normale», per esempio in un parcheggio a «lisca di pesce», e già pregustando quel posto, apparentemente libero, poi, quel posto, ce lo siamo puntualmente trovati occupato da lei: dalla Smart fortwo. Che mica spuntava da quel parcheggio. Cialtrona e impertinente perché se pensate al traffico caotico di Trastevere o di Prati a Roma oppure dei vari Corso Vercelli o corso Magenta a Milano, lei c’era. O, meglio, ci stava. Abilissima nel trovare un buco dove infilarsi. Impertinente perché, magari, dove il buco non c’era se lo inventava mettendosi pure di traverso.

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«Parva sed apta mihi», avrebbe fatto scrivere sulla carrozzeria della Smart fortwo Ludovico Ariosto, se ne avesse avuta una. Che, in buona sostanza, è la filosofia che ha animato quest’auto cui adesso, dopo 25 anni, ci accingiamo a dire addio: piccola ma adatta a tutto e a tutti. Da marzo non verrà più prodotta. Ma che modo è? Due-posti-due che diventano improvvisamente inagibili come un’era che si chiude. Due metri e cinquanta di lunghezza per 1,51 di larghezza e 1,52 di altezza confezionati in questa sorta di cubo (la cellula Tridion, che garantiva un elevato livello di sicurezza passiva, realizzata in una lega di acciaio molto resistente) dove si potevano far accomodare felicità e spavalderia. Per sentirsi liberi. E anche per questo motivo preferita persino dai «guerrieri degli scooteroni». Auto di nascita francese dato che lo stabilimento era ad Hambach, di passaporto tedesco ma adottata entusiasticamente, come in nessun altro Paese, dall’Italia, quando apparve per la prima volta, era il 1998, oltre a guardarla con un mix di curiosità e scetticismo (anche il prezzo non era proprio abbordabilissimo: tra i 17 ed i 20 milioni di lire di allora) ci si interrogò su quel nome e sulla genesi di quella “macchinetta”. I “genitori” furono presto individuati in Mercedes e Swatch, sì proprio quella degli orologi anti-convenzionali, che già da tempo cullavano desideri automobilistici azzardati. E il nome venne quindi ricondotto alla crasi: Swatch Mercedes ART. Smart, appunto.

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Il “two” fu aggiunto solo nel 2004, quando venne realizzata anche la Smart a quattro posti, ovviamente Smart forfour. Nata col motore posteriore, 45 e 55 cavalli per il turbo benzina 600 cc questa apripista rivoluzionaria ha lasciato in giro molti figli più o meno legittimi in questi anni: Brabus, Cabrio, Roadster. Poi, nel 2019, con la terza generazione, la Smart fu la prima casa automobilistica tradizionale ad annunciare l’abbandono dei motori a combustione. Elettrica, dunque con una batteria da 17,6 kWh, posizionata tra i due assi per un’autonomia di circa 160 km. Più che sufficienti per “rivoltare” le città come un calzino. Prima auto condivisa e a inaugurare quindi il car sharing, prima elettrica, prima nella varietà di personalizzazioni possibili e anche nella scelta del bicolor poi copiata da tutti e quindi abbandonata da lei che l’aveva inventata. Per completezza d’informazione va sottolineato che oggi la Smart non è più tutta tedesca, ma il marchio viaggia sotto l’ombrello di una joint venture tra la Mercedes e la cinese Geely. Un’unione che ha cambiato decisamente l’immagine e le dimensioni della vettura originaria partorendo la Smart #1 e la Smart #3, peraltro costruite in Cina. L’hashtag # 2 però manca e forse è il caso di farci qualche domanda. Che dire ancora? Che i sociologi l’hanno definita un elemento di arredo urbano, tanto si integrava al paesaggio, e che anche al MoMa di New York un posto l’ha trovato subito. La Smart fortwo ha inanellato, per cinque lustri, sapori e dissapori e così, anche se arrivasse, da qui ad un paio d’anni, come qualcuno sussurra, una sua presunta erede, nulla sarà più come prima.


Persino i parcheggi.

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