Cultura e Spettacoli

Cesare Ferri, il ribelle che rinnova Ionesco

Riunite in «Normali per forza» le commedie drammatiche di un autore molto originale tuttora inedito sui palcoscenici italiani

Enrico Groppali

Tempo fa, a Parigi, conobbi l’estroso autore-regista Pierre Spivakoff noto, negli anni Ottanta, per una clamorosa decisione. Deluso dalle tiepide accoglienze della critica al suo recente revival della Signora dalle camelie, polemicamente riscritto in vesti maschili, quel curioso intellettuale che insegnava estetica alla Sorbona scelse da un giorno all’altro la via dell’esilio. In un’anarchica rivolta contro l’establishment si ritirò fuori porta in un loft d’impressionanti dimensioni dove, senza alcun scopo di lucro, costruì con le sue mani un minuscolo théâtre de poche dove tuttora si esibisce di fronte a chi voglia venirlo a scovare.
Non credo che Cesare Ferri di cui Noctua ha appena pubblicato, col titolo Normali per forza, il secondo volume del suo teatro, conosca il collega francese. Anche se, per una curiosa coincidenza, il protagonista di una delle sue pièce più riuscite, Così va il mondo, finisce per abbracciare, escluso tra gli esclusi, lo stesso destino di Spivakoff. Dopo due atti dove, per gradi, siamo condotti a conoscere l’atroce parabola di Battistoni, ex-interventista d’assalto che, rimasto monco dopo una scaramuccia col nemico, si ritira deluso dal feroce opportunismo degli antichi compagni in uno sdegnoso apartheid. Ferri ci ripropone il suo eroe in un gran finale di teatro al quadrato. Dove l’eroe, rizzato nel suo misero alloggio un palcoscenico di fortuna, recita Gogol e Shakespeare. Dal Naso a Troilo e Cressida, l’emarginato cui la brutale realtà dei fatti inibisce di affrontare un autentico pubblico, si esibisce, sdegnoso e solitario, nella sua tana. E poco importa se l’intervento di una soave presenza femminile rischi di tramutare quello sconcerto in un’innocua mania: l’importante, sottolinea l’autore, è che l’allarme ci sia stato e che nessuno ne abbia colto tutto lo spaventoso orrore. Ma Ferri che, in questa strana commedia rammenta certi antichi nonsense di Ionesco, potenzia il carattere dell’escluso in quella che, senza dubbio, è finora la sua prova più felice. Percorsa da un pathos delirante nella sua suggestionante ambiguità.
Parliamo, stavolta, di Normali per forza, una commedia bifronte che, nella prima parte, ci presenta un clochard degno di Testori che affonda fino al midollo in un allucinante monologo sulla vanità delle apparenze. Mentre, nella seconda, ritroviamo l’imbarazzante portavoce della vis protestataria dell’autore confinato in quel manicomio dove si insegna il supino conformarsi all’inesorabile necessità del quotidiano. In un accumulo orgiastico e delirante di parole, questa vittima della vita che, in una discarica, faceva collezione di lettere come di lapidi, lieto di aver annullato la morte attraverso un sonno della ragione rabbiosamente costruito giorno per giorno, viene ahimé recuperato alla società.

Che gli sottrae il bene più prezioso: la pura ingenuità del neonato che guarda il mondo.

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