Cultura e Spettacoli

Ceylon, un Paese in bilico fra politica e religione

Un’isola che è un paradiso in terra. Una delle poche oasi incontaminate del pianeta: è Sri Lanka, una ninfea che galleggia nell’Oceano Indiano, talmente piccolo rispetto alla vicina India che molti lo hanno sempre considerato una sorta di appendice, uno stato satellite. Di elementi in comune, sul piano storico e culturale, non ne mancano. E dove non ha provveduto l’incedere naturale del tempo, ci ha pensato l’uomo. Anzi, il colonialismo.
Tradizionalmente cingalese e buddista, l’isola vede la presenza di una forte e agguerrita minoranza tamil e indù la cui immigrazione dall’India venne favorita dagli inglesi. Se Sri Lanka, ovvero Ceylon prima del 1971, anno dell’indipendenza, non era un paradiso, poco ci mancava. Lo scontro tra le due diverse etnie, fomentato da fondamentalismi contrapposti e calcoli politici, fece dell’isola, soprattutto della sua parte settentrionale, uno degli scenari più caldi del globo. Soprattutto quando l’India stipulò accordi segreti col governo di Colombo, togliendo il suo appoggio alle Tigri tamil, l’organizzazione separatista che per lunghi anni mise a ferro e fuoco l’isola, rendendosi protagonista del clamoroso assassinio di Rajiv Gandhi, primo ministro indiano.
Proprio agli infuocati anni ’80 fa riferimento il romanzo Atti di fede di Rajiva Wijesinha (Giovanni Tranchida Editore, pagg. 279, euro 16, traduzione di Nicola Lazzaro), una delle penne cingalesi più eleganti ed erudite. Dopo aver studiato a Oxford, Rajiva ha avuto cattedre in diversi centri universitari internazionali e oggi è il rappresentante per lo Sri Lanka del Comitato Liberale Internazionale per i Diritti Umani. Non è un caso, dunque, che questo suo nuovo romanzo, in realtà scritto nel 1985, sia un’opera dal forte contenuto politico.
È un’apertura insolita, quella di Atti di fede, con l’assassinio di Shiva, un eroico giornalista tamil scomodo al governo. Già, proprio Shiva, come la ben nota divinità indù. Ma ci sono anche Krishna, Giovanni, Marco, Luca e Matteo, in una analisi impietosa della difficile commistione tra politica e religione. Wijesinha non fa sconti a nessuno, tantomeno alla casta dei bramini cingalesi che si considera una sorta di classe pura. È una girandola di figure corrotte e intriganti, questo libro. Un ritratto grottesco di una società alla ricerca di se stessa, una società dove gli uomini politici sono dei drogati viziosi, una società in cui sono in pochi a fare appello a una difficile unità nazionale, impegnati come sono a sventolare spettri di golpe comunisti e omosessuali così come di ingerenze cattoliche, buddiste o induiste («non erano gli omosessuali cattolici che si erano uniti ai marxisti per seminare l’anarchia sulla loro terra»).
Se questa storia non fosse animata da una scrittura sapiente e mai auto-indulgente, si potrebbe pensare che sia fin troppo facile prendersela con la politica e le religioni. Insomma, così va spesso il mondo, sembra ricordarci l’autore, forte di una profonda cultura umanistica. L’amore per un Paese che dopo decenni di guerre intestine è stato messo a terra dal devastante maremoto del dicembre 2004, fa da contraltare a una critica feroce che non risparmia nessuno. In fondo, «solo inseparabilmente unita, la nazione poteva sopravvivere...

mentre cose come casta, credo, razza e preferenza sessuale in generale non importavano, a patto che ciascuno facesse la propria parte».

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