Ciclismo

"Il giorno in cui portai il ciclismo sulla luna"

Intervista a Francesco Moser. Oggi 40 anni fa l’azzurro tolse a Merckx il record dell’ora superando per la prima volta i 50 km. Poi concesse il bis

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La ricorrenza imporrebbe un brindisi con uno spumante adeguato e Francesco Moser è da un po’ che ha messo in fresco il suo 51.151 che ricorda esattamente i chilometri percorsi in un’ora il 23 gennaio di quarant’anni fa sui 333 metri del Centro Deportivo di Città del Messico. Un record che ha fatto epoca e che ha cambiato il corso della storia del ciclismo, portandolo in una nuova dimensione, quello della ricerca applicata allo sport.

Fino a quel momento il ciclismo era fondato su una conoscenza empirica, da quel 19 gennaio 1984 – data del primo record - è entrato nelle gallerie del vento, tra algoritmi e cardiofrequenzimetri, aminoacidi ramificati e test di valutazione funzionale. «La cosa impressionante è che sono trascorsi quarant’anni – racconta a «Il Giornale» il 72enne campione di Palù di Giovo -. Fino a poco tempo fa mi faceva impressione la misura coperta, ora gli anni che mi separano da quei giorni indimenticabili».

Un record, due momenti. Il primo datato 19 gennaio; il secondo 23.
«Il primo doveva essere solo un test sui 20 km, anche se la fiducia era alta. Se il cronometro ci avesse dato indicazioni positive si sarebbe andati “por la hora!”. Il record da superare era quello stabilito il 25 ottobre del 1972 da Eddy Merckx: 49,432, su bicicletta costruita da Ernesto Colnago. Quattordici anni dopo lo miglioravo portando il limite per la prima volta nella storia oltre ai 50 km: 50,508, per la precisione. Il secondo tentativo, quattro giorni dopo, per onorare i tantissimi tifosi italiani che erano in viaggio e non avevano potuto assistere al primo record. Fu un trionfo esaltante e stordente».
Da allora il ciclismo non è stato più lo stesso.
«A 33 anni non era facile reinventarsi, soprattutto per uno come il sottoscritto che ormai si era abituato a certi allenamenti. Ma fondamentale fu l’apporto dell’équipe scientifica della Enervit di Paolo Sorbini: grazie a loro cambiai drasticamente i metodi di preparazione e l’alimentazione: fummo i primi a introdurre aminoacidi ramificati e gli integratori. Grazie al professor Antonio Dal Monte, mutammo anche la concezione di bicicletta: asse variabile, manubrio a corna di bue e ruote lenticolari. Oltre all’utilizzo per la prima volta dei cardiofrequenzimetri e ai concetti di aerodinamica e di galleria del vento. Una rivoluzione. Portai il ciclismo davvero sulla luna».

Cosa ricorda di quei giorni?
«L’impazienza. La voglia di provarci e verificare i nostri convincimenti, vedere concretamente il risultato del nostro lavoro. Le cose andarono quasi esattamente come avevamo previsto, malgrado intorno qualche gufo...».
Quelli non sono mai mancati.
«L’invidia è il primo nemico da affrontare, sempre».
Fu seguito da numerosi scienziati, di ben quattro Università: tra loro il già citato Dal Monte, ma soprattutto il professor Francesco Conconi.
«Persone eccezionali, che programmarono tutto alla perfezione. Per quanto mi riguarda il prof Conconi resta uno scienziato».
Non mancarono le polemiche, per pratiche che dopo i Giochi di Los Angeles 1984 furono vietate.
«In quella circostanza, mi creda, nessuno trasgredì le regole».
Un record che però fu proposto prima a Beppe Saronni.
«Sì certo, ma lui rifiutò. Io, invece, accettai la sfida e mi misi in discussione riuscendo a spostare un po’ più in là la notte di un atleta che era chiaramente sul viale del tramonto. Grazie al quel record arrivarono in sequenza Sanremo e il Giro d’Italia».
Poi però l’Uci, qualche anno dopo, spostò quel record, catalogandolo come “miglior prestazione umana”.
«Un provvedimento folle, anche perché le ruote lenticolari e i manubri particolari sono invece consentiti nelle cronometro su strada».
Oggi il ciclismo è cambiato tantissimo.
«È tornato ad essere divertente, dopo la programmazione esasperata del team Sky e delle “frullate” di Froome. Oggi c’è un bellissimo ciclismo, fatto di grande agonismo. Pogacar è un talento assoluto, Van der Poel e Evenepoel attaccanti nati. Van Aert, Vingegaard e Roglic campioni di prima grandezza. Se mi piacerebbe correre con loro? No, oggi affrontano troppe salite, non riuscirei a vincere un Giro».

Ganna è il primatista mondiale dell’ora, che cosa gli consiglierebbe di fare?
«Premesso che Filippo è un ragazzo eccezionale e lui sa cosa fare, io spero che dopo Parigi si dedichi di più alla strada. Prima, però, ritenti il record: lo migliorerebbe e per vent’anni nessuno più sarebbe in grado di migliorarlo».

Scusi, ma con Saronni vi siete mai chiariti?
«Ci siamo visti, ma non chiariti del tutto. Lui la pensa sempre a suo modo: possiamo anche fare una serata assieme a parlare di ciclismo, ma non chiedeteci di essere amici.

Siamo troppo diversi».

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