Letteratura

Cofrancesco e l'elogio del liberalismo da vivere in comune

Il recupero della tradizione ottocentesca in polemica con libertarismo, universalismo e individualismo

Cofrancesco e l'elogio del liberalismo da vivere in comune

Dino Cofrancesco, al quale sono legato da una amicizia più che quarantennale cementatasi in tante comuni battaglie ideali, è, oltre che un importante studioso del pensiero politico, un liberale puro e duro, d'antico stampo, mi vien da dire: uno di quei liberali con i quali, anche quando si dissente, fa piacere discutere. I suoi punti di riferimento sono Raymond Aron e Isaiah Berlin, per quanto riguarda la speculazione politica, e, per la riflessione storiografica, Rosario Romeo e Renzo De Felice: un pool di studiosi cari anche a me, per tanti motivi.

Di Cofrancesco è appena uscito un nuovo volume dal titolo Per un liberalismo comunitario. Critica dell'individualismo liberista (La Vela, pagg. 216, euro 18) che, pur costituito di saggi scritti in varie occasioni, ha una unitarietà di fondo consistente nel tentativo di recupero della tradizione ottocentesca del liberalismo. È un testo importante, che offre interessanti spunti di discussione per il dibattito sul liberalismo e sul liberismo. Sotto un certo profilo si presenta come una sorta di introduzione al «liberalismo comunitario» che all'autore appare messo in crisi dalla moda e dal successo dei filoni di pensiero libertari e universalistico-individualistici. Il liberalismo comunitario, secondo Cofrancesco, si distingue dal liberalismo individualistico perché presuppone l'esistenza di una «comunità politica», in particolare quella nazionale, all'interno della quale le persone sono in grado di sviluppare la propria identità che diventa, così, identità storica. Esso, quindi, non demonizza ma considera, anzi, essenziale la nazione e, con essa, lo Stato che ne è la cornice istituzionale.

Uno dei principali leitmotiv del libro è proprio il recupero del concetto di nazione che nell'Ottocento dominò il secolo e dette vita, associato al concetto di libertà, alle rivoluzioni nazionali e alla creazione o al consolidamento degli Stati nazionali. Un filone storiografico, di scuola prevalentemente (ma non solo) anglosassone ha individuato una linea di sviluppo lungo la direttrice nazione-nazionalismo-imperialismo-totalitarismo. Tale impostazione ha comportato naturalmente una demonizzazione dei concetti di nazione e di nazionalismo. Contro questa deriva che stabilisce una parentela piuttosto stretta, per esempio, fra nazionalismo, fascismo e nazismo, Cofrancesco porta una argomentazione a mio parere inoppugnabile e decisiva. Scrive: «Nazismo e fascismo, lungi dall'essere l'estrema fase del nazionalismo, tendevano a superare lo Stato nazionale: il primo con il concetto di Spazio Vitale, il secondo con l'idea di impero». E precisa: «Hitler non ragionava in termini di nazioni ma di razze, e Mussolini, dopo la conquista dell'Etiopia, pensava a complessi imperiali che avrebbero restaurato i fasti romani».

In tal modo egli recupera il «bistrattato principio di nazionalità» invitando a rileggere i saggi sulla nazione di Romeo e De Felice, ma anche molte belle pagine di Benedetto Croce per rendersi conto del fatto che nell'Ottocento liberale i concetti di nazione e di democrazia, supportati dal soffio vivificatore della libertà, costituivano un binomio inscindibile. La grandezza dell'Occidente, e della sua civiltà, sta proprio nel suo passato che oggi la pratica perversa della cancel culture si propone di rimuovere con operazioni che, in nome di una polemica anti-identitaria, rasentano molto spesso il ridicolo. Purtroppo, nella bancarotta dell'Occidente, fra le ceneri di un passato glorioso, prospera, secondo Cofrancesco, una concezione della politica che, prescindendo da ogni valore «comunitario», teorizza la preminenza assoluta dell'individuo in nome di principi astratti e universalistici.

Si tratta di quello che egli definisce «liberalismo universalistico-individualistico» e che, a ben vedere, non ha legami con la realtà, dal momento che i diritti civili e politici, tanto osannati e invocati, non sono in grado, da soli, di essere fondamento di un qualsiasi consorzio civile perché si ispirano, anziché alla concretezza e al realismo, al «razionalismo etico iscritto nell'Illuminismo». Secondo Cofrancesco anche il concetto di libertà andrebbe precisato e ricondotto sul terreno della concretezza politica e della realtà comunitaria: «la libertà - scrive - che ci è cara è sempre la libertà di una comunità storica determinata, non è l'armatura vuota del calviviano Agilulfo, il cavaliere inesistente».

Intendiamoci: la polemica di Cofrancesco non riprende affatto, sia pure in termini diversi, il celebre dibattito fra Luigi Einaudi e Benedetto Croce su liberismo e liberalismo, che credo possa ormai considerarsi superato se non per altro almeno per il fatto che l'essenzialità del «mercato» è ormai riconosciuta come fattore specifico di una società liberale. Del resto il contributo fornito al pensiero politico e al pensiero economico dagli economisti e sociologi della cosiddetta «scuola austriaca» - da Ludwig von Mises a Friedrick von Hayek, per intenderci - è definitivo tanto nella critica del socialismo e dell'interventismo economico quanto nella definizione della caratteristiche della società liberale. E del resto le critiche al «razionalismo» e al «costruttivismo» contenute in quell'aureo saggio di von Hayek intitolato L'abuso della ragione sono perfettamente compatibili, mi sembra, con le puntuali osservazioni di Cofrancesco sull'astrattismo delle costruzioni teoriche che si propongono di prescindere dalla realtà - negando la comunità, la nazione e lo Stato - e dalla storia, negando passato e radici identitarie.

Il liberalismo cui fa riferimento Cofrancesco è un liberalismo che potremmo definire «storicistico» non già nel senso di essere una «filosofia della storia», ma nel senso che esso affonda le proprie radici nel divenire storico e nella sua concretezza. È un liberalismo pragmatico e di taglio «continentale» che ha accompagnato la formazione e il consolidamento dei grandi Stati nazionali dell'Ottocento. A tale «liberalismo comunitario» egli ne contrappone un altro che, combinando Adam Smith con Voltaire - diventa dissacrante, quando non addirittura anarcoide, ed è funzionale a una situazione di crisi generalizzata dove dominano le aporie del neoilluminismo e le derive della secolarizzazione. E dove possono allignare le follie della cancel culture.

Sotto questo profilo, il libro di Cofrancesco potrebbe essere inserito nella lunga tradizione della cosiddetta letteratura della crisi.

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