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Così perdiamo la bussola nelle nostre prigioni

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Così perdiamo la bussola nelle nostre prigioni

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Maurizio di mestiere è architetto e sa bene come il luogo dove abitiamo ci influenzi. E così un giorno, camminando per i vicoli stretti del centro storico di Genova, comprende che esistono due categorie di città, le «città-padri» e le «città-madri»: «le prime spingevano all'emancipazione e alla competizione, le seconde proteggevano e imprigionavano». Genova, che lo avvolge con «muri che avevano una consistenza umida, spugnosa, quasi organica», è una «città-madre». Milano, dove è nato e cresciuto, e Parigi, dove si è trasferito per lavoro, sono «città-padri». Il problema di Maurizio è che, in realtà, anche l'emancipazione e la competizione possono essere una prigione, specialmente se si ha un padre ingombrante come il suo... Prima Maurizio ha scelto di proseguire la sua stessa professione; poi, quando il padre lo va a trovare a Parigi e lo convince a tornare a Milano con moglie (argentina di Buenos Aires, «città-madre» che continua a riattirarla nel suo grembo) e figlia di due anni, per lavorare alla progettazione di CityDays, futuristico grattacielo sotto l'egida di una archistar newyorchese, il lucchetto della cella è ormai sigillato.

Però Maurizio, in questa prigione non è solo: c'è anche il fratello Emanuele, l'altro protagonista di Le città e i giorni di Filippo D'Angelo (nottetempo). Emanuele ha compiuto una scelta apparentemente opposta, la fuga nei Paesi dell'Africa più povera, nei ranghi della cooperazione internazionale. Fra i due fratelli i rapporti non sono buoni, anzi, sono quasi inesistenti, anche a causa di un segreto che li perseguita da quando erano ragazzi. Soprattutto, Maurizio ritiene Emanuele un ipocrita e un fallito. Da parte sua, Emanuele ha una certa consapevolezza di questa ipocrisia, anche perché, nel suo passato da cooperante, c'è una macchia terribile (più o meno nascosta): «Chi pensa che le sue peregrinazioni umanitarie siano un impeto di altruismo o un raggiro del senso di colpa non conosce le aritmie dell'anima in paesi dove la natura, violenza degli esseri e degli elementi, è al tempo stesso realtà, simbolo e astrazione. Solo lui sa quello che cerca: il balsamo dell'irrequietezza». E ancora: «Emanuele sfoglia qualche pagina del suo diario. Ne trae un'impressione di falsità, come se attraverso la scrittura fosse impossibile aderire alla materia viscida di cui sono fatte le emozioni e le sensazioni, i pensieri e i ricordi».

Ciascuno è nella sua prigione di bugie e violenza: Maurizio a Milano, alle prese con i giochetti di potere, la corruzione, i tradimenti, le liti con la moglie e l'imprevedibile figlio alcolizzato dell'archistar newyorchese (anche lui oppresso da un padre molto ingombrante); Emanuele nella Repubblica Centrafricana, alle prese con la povertà, la guerra, i bambini stuprati dai soldati francesi, un possibile amore e nuove meschinità a cui non sa resistere... Dice Maurizio: «Ci fu un momento della sua vita in cui tutte le persone che già conosceva, o quelle che ancora incontrava grazie alla vigilanza del caso, qualsiasi cosa facessero, cominciarono a sembrargli le pedine di un gioco senza regole: nonostante i loro sforzi per orientarsi nel presente e dirigersi verso un futuro, avevano smarrito per strada la bussola e l'orologio». Le città e i giorni, appunto.

Questo «gioco senza regole», Filippo D'Angelo lo racconta con disincanto e molto da vicino: e somiglia in modo inquietante alla vita di tanti «giovani adulti» di oggi.

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