Cronaca giudiziaria

Così è stato "infoibato" dalla magistratura il processo ai boia titini

ll procuratore militare Dini nel 2001 aveva individuato 4 responsabili di delitti e torture. Poi l’iter si è arenato tra Cassazione e tribunali

Così è stato "infoibato" dalla magistratura il processo ai boia titini

Il processo ai boia di Tito che hanno massacrato gli italiani, a guerra finita, si poteva fare, ma è stato “infoibato”. Sergio Dini, nei primi anni duemila, procuratore militare a Padova, che aveva individuato quattro criminali di guerra, non ha dubbi: “Credo sia stata una gran brutta pagina per la giustizia e la verità storica”. Le indagini preliminari erano chiuse e si poteva aprire il processo, ma l’intervento della Cassazione, il trasferimento degli atti alla magistratura ordinaria, prima a Gorizia e poi a Bologna ha chiuso per sempre la possibilità di ottenere giustizia. “Avevo concluso le indagini con elementi di prova molto forti - spiega Dini, oggi alla procura civile di Padova - Possiamo dire che il procedimento ha fatto la fine delle vittime dell’inchiesta”. E aggiunge: “Per lungo tempo di queste pagine buie del confine orientale non si doveva parlare ed era meglio mettere la sordina”.

Gli atti sui quattro boia di Tito parlano chiaro e fanno venire i brividi. Dini nel 2001 invia la notifica di chiusura delle indagini preliminari a Franc Pregelj, residente a Lubiana. L’accusa di “concorso in violenza continuata mediante omicidio contro privati nemici” e “di prigionieri di guerra” riguarda l’occupazione di Gorizia delle truppe di Tito nel 1945. Nome di battaglia “Boro” “quale comandante del settore di Gorizia del IX° Corpus Sloveno, con più azioni distinte ma esecutive di un medesimo disegno criminoso costituito dal fine di eliminare cittadini di etnia italiana dalla zona (…) in vista ed in funzione di eventuale annessione di quelle terre allo stato jugoslavo, disponeva arresti indiscriminati in danno di cittadini italiani (…) e la loro successiva uccisione”. Nell’atto segue una lunga lista di 635 nomi di civili, militari, carabinieri spariti per sempre compresi Licurgo Olivi e Augusto Sverzutti, esponenti del Comitato di Liberazione che si opponevano alle mire titine.

Dini con la procura militare ha portato alla luce anche l’armadio della vergogna, che nascondeva i crimini di guerra compiuti dai nazifascisti durante la seconda guerra mondiale. “Ho sempre fatto il possibile per perseguire tutti i criminali di guerra sotto qualsiasi bandiera - sottolinea - Non sopporto che ci sia una giustizia sui vinti e non per i crimini dei vincitori”. Dini individua un altro boia, italiano, di Tito: Ciro Raner il famigerato comandante del lager di Borovnica, che viveva tranquillamente a Crikbenica, in Croazia. “Assieme a Pregelj riceveva ogni mese la pensione dell’Inps” racconta il magistrato. Nella richiesta di assistenza giudiziaria alla Croazia per interrogare Raner, accusato di “violenza contro prigionieri di guerra mediante omicidio aggravato e continuato”, descrive l’inferno di Borovnica dal maggio al dicembre 1945. Raner “disponeva l’uccisione mediante fucilazione dei seguenti militari italiani prigionieri di guerra (fucilazioni che venivano materialmente eseguite previa sevizie e pestaggi (…))”.

Seguono le date delle esecuzioni, tutte a guerra finita, e 11 nomi: il bersagliere Giuseppe Spanò, Fernando Ricchetti, Bruno Gozzi, Giuseppe Favorita, Otello Chiodini, Giuseppe Marte, Giovanni Miklovic, Vincenza Lionetti, Giuseppe Tanferna, Milano Bucci, Fiorino Ruppe. Non solo: Raner “disponendo e mantenendo un regime alimentare e igienico sanitario per gli internati assolutamente scarso ed insalubre, cagionava la morte per inedia e malattia di un gran numero di detenuti”. E vengono riportati altri 16 nomi di prigionieri italiani.

Dalla Croazia e dalla Slovenia “non abbiamo ottenuto aiuto e collaborazione”. Gli altri due boia titini individuati, agli inizi degli anni duemila, erano Alojz Hrovat e Silvio Gianfrate, che facevano parte del IX Corpus sloveno. “Nella mattinata del 25 marzo 1944 in località Malga Bala (nei pressi delle Cave del Predil in provincia di Udine nda), partecipavano all’omicidio di dodici carabinieri”, tutti identificati. Le aggravanti sono terribili: “Di avere agito con sevizie e crudeltà consistenti nel far ingerire ai prigionieri, con particolare crudeltà, soda caustica e sale nero (con conseguente dissenteria); nell’averli legati con il filo di ferro ai polsi ed in seguito “incaprettati” ed infine di averne cagionato la morte con colpi di piccone, di bastone e con calci”.

L’avvocato di Pregelj, che segue le orme del padre difensore dei partigiani nell’immediato dopoguerra, si oppone sostenendo che i reati non sono connessi agli eventi bellici. L’obiettivo è spostare il procedimento alla giustizia ordinaria. La Cassazione gli da ragione ribadendo che non c’è un nesso con “operazioni belliche o derivante da “cause di guerra””. Dini ancora oggi si chiede come sia stato possibile: “A Gorizia i titini occupano e deportato centinaia di italiani, militari e civili, e non ha niente a che fare con la guerra”. Il risultato è che il fascicolo passa al tribunale del capoluogo isontino, ma uno dei magistrati ha avuto un familiare infoibato. L’incompatibilità provoca il trasferimento a Bologna, dove il procuratore capo, lamentando la cronica carenza di organici, sottolinea che è arrivata pure l’enorme indagine sui crimini di Tito.

Nel capoluogo emiliano il possibile processo ai boia finisce “infoibato” per sempre.

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