Cronaca internazionale

Libia, rivolta anti-Israele: bufera sui due ministri. L’ira Usa contro Tel Aviv

Scontri a Tripoli: al-Mangoush sospesa fugge in Turchia. Cohen sotto attacco: "Irresponsabile"

Libia, rivolta anti-Israele: bufera sui due ministri. L’ira Usa contro Tel Aviv

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Libia, rivolta anti-Israele: bufera sui due ministri. L’ira Usa contro Tel Aviv

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La Libia cerca disperatamente una strada nuova, ma la belva della violenza generata dalla miseria e l’incertezza e l’odio populista antioccidentale non riescono ad abbandonarla; Israele cerca disperatamente un rapporto nuovo col mondo islamico, ma quanta raffinata diplomazia occorre, quanta comprensione della cultura araba per riuscire a ottenere qualche risultato. Dunque, ci sono volute solo poche ore dall’annuncio dell’incontro a Roma fra il ministro degli esteri israeliano Eli Cohen e la sua controparte libica, Najla Mangoush, perché da «storica» la vicenda si trasformasse in un «attentato diplomatico», come ripete l’opposizione al governo, al buon nome di Israele nel mondo arabo. Lapid arriva a esclamare.

Nel fattempo, a pagare per l’incontro di Roma è stata Najla, licenziata dal governo di Tripoli, e adesso esule in Turchia, per proteggere la sua stessa vita. Un risultato certo inaspettato, causato dall’imprudenza. L’incontro, che a detta della parte israeliana era stato cordiale e promettente, si è svolto a Roma: dell’evento il governo israeliano e quello libico di Tripoli che fa capo ad Abdul Hamid al-Dbeibeh, avevano da tempo reso consapevole il governo italiano, e c’erano state fasi preparatorie. Del resto, sono anni che in segreto si svolgono colloqui a molti livelli fra vari ufficiali ed esperti dei due Paesi: la regola è sempre stata l’assoluta segretezza, perché dal tempo di Gheddafi l’odio antisraeliano è legge, con brevi intervalli. Così faceva il rais di Tripoli, che sapeva calcolare i momenti in cui deporre l’odio antiebraico.

A quanto si ricostruisce adesso, le due parti incontratesi a Roma non hanno concordato i tempi di uscita sulla stampa se non con una generica indicazione: stavolta, sì, rendere la notizia pubblica, ma con calma. La storia è però trapelata sulla rete Ynet, che ha ignorato la gravità della rivelazione: il ministro Cohen quindi, temendo interpretazioni sbagliate, ha deciso, senza consultare la controparte, di scrivere un comunicato. Un testo ottimista anche se piuttosto vago: grande potenziale, cooperazione in materia umanitaria, agricola, gestione delle risorse idriche. Questo la Libia cerca da Israele oltre a una difesa dalla continua aggressione dei gruppi islamisti estremi (50 morti solo nell’ultimo mese).

Ma invece di questo risultato, il comunicato ha creato un terremoto. Durante la notte tra domenica e ieri gruppi di libici infuriati hanno bruciato bandiere israeliane e marciato con bandiere palestinesi, gridando «no alla normalizzazione» e «non venderemo i palestinesi». Si dice che anche la casa della ministra degli Esteri, divenuta il capro espiatorio della vicenda, una donna in prima linea, per esempio, contro la Russia in favore dell’Ucraina, sia stata presa di mira così come la sede degli uffici del primo ministro. Il suo governo, che è quello riconosciuto internazionalmente come legittimo (quello di Haftar peraltro ha più volte tentato un avvicinamento) l’ha scaricata. Dbeibah ha fatto intendere di non essere a conoscenza dell’incontro (cosa che di più parti negano), il governo ha sposato la tesi dell’incontro casuale, della scelta personale della povera ministra, subito licenziata e spedita da Recep Tayyip Erdogan a Istanbul. Un esilio per motivi di sicurezza.

In Israele la discussione è uno specchio del durissimo scontro politico attuale: Cohen è preso di mira adesso come un facile obiettivo delle critiche al governo Netanyahu.
Lapid ne fa l’esempio della sua inaffidabilità e la mette giù pesante: «La comunità internazionale ci guarda e si chiede se questo è un Paese con cui si possono condurre rapporti internazionali». Tuttavia la maggiore campagna di delegittimazione di Israele all’estero in questo periodo avviene a opera di grandi calibri israeliani, e i Patti di Abramo sono forse la maggiore acquisizione proprio del governo Netanyahu, che lavora per l’allargamento all’Arabia Saudita.

Da parte sua, il governo americano di Joe Biden, che aveva spinto Tripoli ad accettare l’incontro, fa sapere che è furioso per le rivelazioni e teme che danneggino i rapporti in costruzione.

Vedremo.

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