Cronaca locale

La moschea della paura: quartiere sotto scacco tra stalking e minacce

A Milano il centro islamico perseguita gli italiani. Il padrone violento condannato ma non si muove

La moschea della paura: quartiere sotto scacco tra stalking e minacce

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«Terroni di merda, italiani di merda, bastardi, razzisti, zingari, ve la faccio pagare». E manteneva le promesse: vandalismi, botte, sabotaggi, minacce. Da una parte il padrone di una moschea islamica, dall'altra la gente modesta di una strada modesta di periferia: un pezzo della Milano spaventata, una spiegazione concreta del malessere da immigrazione, sta nei cento metri di via Zambelli. Accanto scorre la ferrovia, sotto scorrono la prepotenza e la paura. Siamo ad Affori, antico quartiere popolare, oggi terra di nessuno.

Per la prima volta, un immigrato arabo viene condannato per stalking ai danni di un italiano. È il reato che si usa di solito per colpire la persecuzione delle donne, e che invece stavolta racconta la persecuzione di una intera via: perché a denunciare l'uomo della moschea è stato uno solo degli italiani costretti a subire, un meccanico di automobili; ma altri abitanti hanno subito trattamenti analoghi, e hanno testimoniato in aula. Ora a raccontare la storia di via Zambelli - rimasta incredibilmente sotto traccia - c'è la sentenza del giudice Mariolina Panasiti, che infligge quattro anni e sette mesi di carcere a Ahmed Kabir, il padrone violento della moschea. Sarebbero stati di più, se la Procura avesse contestato tutte le aggravanti che c'erano.

Inizia tutto sei anni fa, quando un vecchio magazzino viene comprato da Ahmed Kabir. Pochi, sommari lavori, poi nei locali apre la sua sede una «associazione culturale» islamica. Dietro questo paravento nasce una moschea: abusiva, senza i permessi che sarebbero necessari per un luogo di culto. Che sia una moschea non c'è dubbio: venerdì scorso alle 13, l'ora della preghiera, arrivano in centinaia - a piedi, in bicicletta, con le auto - superano il cancello grigio, lasciano le scarpe sullo scaffale, si inginocchiano. L'imam, un giovane barbuto che pare arrivi da Bergamo, fa la sua predica. Non sembra che nessuno, in Comune o in Procura, si sia mai preoccupato di chiedere conto a Kabir di quella moschea spuntata dal nulla.

Ma questo non sarebbe nulla di troppo diverso di quanto accade da anni. La storia incredibile riguarda i metodi con cui la presenza della moschea è stata imposta alla gente di via Zambelli, documentati nelle testimonianze e nei filmati, che portano la sentenza a parlare di «una serie lunghissima, reiterata, costante, martellante di molestie, intrusioni, minacce, danneggiamenti, talora percosse» messa in atto dal creatore della moschea. Anche dopo essere stato denunciato dal titolare dell'officina, anche dopo essere finito sotto inchiesta, Kabir non ha cambiato sistema. Alle auto di italiani che osavano infilarsi nella via venivano riservate bastonate e mattonate. Disperato, a processo in corso, il meccanico - che ha visto azzerarsi la clientela - ha chiesto che Kabir venisse arrestato. La Procura gli ha risposto che non era possibile.

Nell'aula del processo, il meccanico ha raccontato di tutto. La presenza dell'officina per l'islamico è un ostacolo, crea movimento, impedisce che la via diventi cosa sua. Così vengono strappati i fili di internet, i tecnici che devono cambiarli vengono cacciati con la forza. I vetri vengono spaccati. Chi passa per la via viene insultato, «bastardi, ve ne dovete andare». In aula viene interrogato un agente di polizia intervenuto dopo la chiamata di un vicino: «Tutti indicavano che l'imputato si comportava come il padrone della strada». Viene interrogato in aula il portinaio della casa di fronte: «Kabir - dice - minaccia tutte le persone che passano, è solito dire terroni di merda" a chiunque parcheggia una vettura. Ha minacciato anche me più volte, una volta mi ha detto che mi avrebbe tagliato la testa». Lui nega tutto, ma i filmati e le testimonianze lo inchiodano: e arriva la condanna.

Ma Kabir resta libero, e la sua moschea rimane aperta.

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