Scena del crimine

Cinzia Santulli: storia della fisioterapista di Aversa uccisa con 41 coltellate

Il processo sul delitto del Casertano nel 1990 fu uno dei più controversi della storia italiana. Ecco perché Ludovico Santagata fu assolto a Napoli dall'omicidio ma condannato nel civile a versare una cifra simbolica

 Cinzia Santulli: storia della fisioterapista di Aversa uccisa con 41 coltellate
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Quando i carabinieri entrarono nell’appartamento di via Leonardo da Vinci ad Aversa, uno dei centri economici più importanti della provincia di Caserta, e si trovarono davanti agli occhi il cadavere di Cinzia Santulli, 30 anni, non immaginavano che le loro indagini avrebbero dato il via a uno dei processi più controversi e contestati della giustizia italiana. Un caso senza precedenti che ancora oggi fa discutere. Sono trascorsi decenni dal giorno dell’omicidio di Cinzia Santulli, ma il ricordo dell'ingiustizia è ancora vivo nella mente dei familiari e degli abitanti del luogo. La 30enne fu barbaramente assassinata con quarantuno coltellate nella sua abitazione il pomeriggio del 24 novembre 1990, anche se il cadavere fu scoperto dalla madre solo la mattina successiva. Per quell’efferato delitto nessuno ha pagato, anche se in realtà un killer, condannato solo in sede civile, dopo anni di dibattimenti nei tribunali è stato individuato. Si tratta di Ludovico Santagata, allora 26enne, il quale non ha scontato neppure un giorno di carcere per effetto di una singolare e complessa vicenda giudiziaria. L’unico indiziato dell’omicidio di Cinzia Santulli è stato assolto per insufficienza di prove in sede penale, ma condannato in sede civile al pagamento di un risarcimento dal valore di una lira.

L’omicidio

Cinzia Santulli 2
Cinzia Santulli il giorno della laurea

Cinzia Santulli fu trovata morta dalla madre la mattina del 25 novembre 1990. La donna, non avendo notizie della figlia dal giorno prima, decise di recarsi a casa sua. Avendo le chiavi dell’appartamento al centro di Aversa aprì la porta d’ingresso e provò a chiamarla. Non ricevendo risposta si precipitò di scatto in camera da letto.

“È come se avesse avuto un’intuizione. Quando oltrepassò la porta infatti trovò il corpo senza vita di Cinzia a pancia in giù e in una pozza di sangue”. Raffaele Santulli è uno dei fratelli della vittima ed è un avvocato. È lui che ha seguito, fin dall’inizio, l’iter processuale dimostrando una tenacia e una forza di volontà fuori dal comune nel tentativo di scoprire la verità.

Il legale ha accettato di raccontare la storia di sua sorella, aiutandoci a mettere insieme i tanti tasselli della delicata vicenda. “A Cinzia furono inferte ben quarantuno coltellate – dice Santulli a Il Giornale.it – un delitto atroce e inumano che portò gli inquirenti a pensare subito a un assassino con problemi psichici”. A finire sotto la lente d’ingrandimento degli investigatori fu Ludovico Santagata, che aveva avuto una breve relazione sentimentale con la donna. La conosceva bene e in quell’appartamento c’era stato già tante altre volte.

L’indagine

Cinzia Santulli
Cinzia Santulli

I carabinieri del nucleo operativo e radiomobile di Aversa trovarono il cadavere di Cinzia Santulli che giaceva bocconi sul pavimento. La donna indossava i jeans, una maglietta e aveva ancora le pantofole ai piedi. Il corpo, su cui non ci sarebbe stata violenza sessuale, presentava numerose ferite da taglio e le tracce di sangue, oltre che in camera da letto, furono rilevate in più zone dell’appartamento. La porta d’ingresso della casa però non era stata forzata e le stanze erano in perfetto ordine. Ciò fece pensare agli inquirenti che Santulli conoscesse l’assassino. Molto probabilmente fu lei stessa ad aprire la porta al suo carnefice, inconsapevole di cosa sarebbe accaduto di lì a poco.

Le ultime ore di vita

Il pubblico ministero incaricato di seguire la vicenda, il sostituto procuratore Francesco Jacone, si preoccupò di ricostruire le ultime ore di vita della donna. Il 24 novembre Cinzia aveva pranzato a casa della madre e verso le 15 era ritornata nell’appartamento di via Leonardo da Vinci dove abitava da sola. Poco dopo aveva telefonato a un’amica per concordare un’uscita insieme. Si sarebbero dovute incontrare alle 17 per recarsi a Caserta.

L’idea era di fare shopping con altri amici, ma Cinzia a quell’appuntamento non è mai arrivata. Ciò non destò sospetti perché spesso capitava che non si presentasse agli incontri senza dare spiegazioni. Il suo lavoro di fisioterapista nella palestra gestita insieme all’altro fratello, Paolo, un ex parlamentare di Forza Italia, la prendeva molto e a volte capitavano urgenze da sbrigare. La vita privata di Cinzia Santulli non aveva segreti. Uscita da un lungo fidanzamento di undici anni, alla fine del 1989 ebbe una breve relazione con Ludovico Santagata, separato con un figlio.

L’alibi (smentito) di Santagata

L’uomo fu ascoltato dai giudici nelle fasi iniziali dell’indagine, fornendo un alibi che non convinse mai del tutto gli inquirenti. “Santagata dichiarò di aver trascorso il pomeriggio a casa – racconta l’avvocato Santulli – e che dopo pranzo, verso le 17.30, era sceso per telefonare ai cugini di Arco Felice, poiché aveva intenzione di andare a far loro visita”. Poi disse di aver trascorso tutto il tempo, fino a sera tarda, con i familiari, i quali confermarono l’alibi. “Peccato che due testimoni – continua il fratello della vittima – affermarono di aver visto Santagata nelle vicinanze dell’abitazione di Cinzia in orari compatibili con il momento in cui la donna fu assassinata”.

Il rinvio a giudizio e la prima assoluzione

Raffaele Santulli
L'avvocato Raffaele Santulli

Raccolti tutti gli elementi a disposizione, il pubblico ministero decise di rinviare a giudizio Santagata, con l’accusa di omicidio premeditato di Cinzia Santulli e porto illegittimo di arma da taglio. Al termine del processo di primo grado, che si concluse il 26 febbraio del 1994, l’imputato fu assolto. Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere richiamò l’articolo 530, secondo comma, del codice di procedura penale, ovvero la vecchia insufficienza di prove.

Il quadro psicologico dell’imputato e la seconda assoluzione

Nel corso del processo però emerse in maniera chiara che Santagata avrebbe sofferto di disturbi psicologici. Furono gli stessi giudici a tratteggiare un profilo ambiguo dell’imputato, definito “anaffettivo, abulico e bizzarro”. Eppure la Corte di Assise di Napoli, il 23 dicembre 1997, confermò l’assoluzione di primo grado. “Eravamo fiduciosi che nel corso del procedimento d’appello – evidenzia Raffaele Santulli – si sarebbero approfonditi altri aspetti in precedenza sottovalutati, ma così non fu”. Tra questi anche la testimonianza in tribunale dell’ex moglie di Santagata che aveva confermato il comportamento strano dell’uomo, il quale, in passato, era arrivato anche a picchiarla. Tutto questo non servì a ribaltare il giudizio dei magistrati.

Il cortocircuito giudiziario

A quel punto l’avvocato Santulli e i fratelli chiesero al pg di ricorrere in Cassazione, ricevendo una doccia gelata inaspettata. “Produssi dodici pagine di motivazioni – ricorda il fratello della vittima – per illustrare quelli che per noi erano gli errori commessi fino a quel momento in sede processuale. Il procuratore generale Antonino Demarco, il 6 maggio 1998, scrivendo una semplice paginetta, rigettò inspiegabilmente il nostro ricorso”.

Fu quella la pietra tombale sul processo penale. Grazie alla decisione assunta dal procuratore non era più possibile perseguire penalmente Santagata. Il probabile assassino non avrebbe mai scontato neppure un giorno di carcere. “E così è stato – osserva con amarezza l’avvocato Santulli – dato che poi l’imputato è stato condannato in sede civile”.

La condanna in sede civile e il risarcimento di una lira

Manifesto Santagata
Il manifesto affisso ad Aversa dalla famiglia Santulli

Ludovico Santagata fu incriminato sulla base di un alibi che non ha convinto gli inquirenti e fu assolto sia in primo grado (in base al secondo comma dell'art. 530, la vecchia insufficienza di prove), sia dalla Corte di Assise di Appello di Napoli. Quest'ultima sentenza è passata in giudicato in quanto il pg si rifiutò di presentare ricorso in Cassazione come richiesto dalla famiglia Santulli. Il fratello della vittima non si arrese, il suo obiettivo era dimostrare che quella sentenza non era giusta. Per fare ciò, l’unica strada sarebbe stata ricorrere in Cassazione, solo ai fini civili, chiedendo in maniera simbolica il risarcimento di una lira. “La vita di mia sorella non aveva prezzo – spiega il legale – la somma irrisoria era necessaria per far partire il procedimento”.

L’intuizione provocò il colpo di scena: la Cassazione cancellò la sentenza di proscioglimento ai soli effetti civili, rimettendo la causa al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere per un nuovo giudizio. Un riconoscimento implicito che gli elementi di colpevolezza di Santagata erano più che fondati.

La sentenza del tribunale civile, emessa l’8 maggio 2002, entrò nel merito della vicenda, riconoscendo anche una superficialità di giudizio nei confronti dei magistrati che avevano precedentemente assolto Santagata, il quale venne dichiarato colpevole dell’omicidio di Cinzia Santulli e condannato a versare alla famiglia della vittima il risarcimento di una lira, anzi di un centesimo di euro, visto che intanto si era passati alla nuova moneta.

L’avvocato fece affiggere in città un manifesto in cui richiamava, a caratteri cubitali, la sentenza. Santagata produsse anche ricorso, ma la sua richiesta fu rigettata.

Una vittoria a metà, ma pur sempre una vittoria quella incassata dalla coriacea famiglia Santulli, tanto che l’avvocato Raffaele avrebbe poi detto nella trasmissione televisiva della Rai Chi l’ha visto?: “È poco, ma comunque è qualcosa”.

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