La stanza di Feltri

Per i morti sul lavoro non si scende in piazza

Sono così tanti coloro che perdono la vita sul lavoro che non ci stupiamo più quando avviene, come se si trattasse di qualcosa di naturale, fisiologico, scontato

Per i morti sul lavoro non si scende in piazza

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Per i morti sul lavoro non si scende in piazza

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Buongiorno Direttore,
ogni giorno crepano lavoratori e vengono aggrediti medici e infermieri. Eppure i giornali anche oggi enfatizzano soltanto la morte dell'oppositore di Putin il quale, per carità, sarà stato anche ammazzato, e questo indigna tutti, ma abbiamo anche altri morti ai quali pensare. Perché certe vittime suscitano reazioni e altre ci lasciano completamente indifferenti?
Giordano Rinaldi

Caro Giordano,
è che a certe morti ci si abitua, purtroppo, quindi vengono normalizzate. Sono così tanti coloro che perdono la vita sul lavoro che non ci stupiamo più quando avviene, come se si trattasse di qualcosa di naturale, fisiologico, scontato. L'aumento dei decessi sul lavoro avrebbe dovuto condurci anni fa ad essere più severi e rigorosi in merito ai controlli, invece accade che la stragrande maggioranza dei cantieri non sia in regola, stando ai dati. Se le norme non vengono rispettate e le misure di sicurezza non vengono adottate, è ovvio che a farne le spese saranno loro: i lavoratori. La media annuale è di oltre mille vittime.

E poi ci sono medici e infermieri che vengono aggrediti in reparto, picchiati, insultati, talvolta ridotti in fin di vita, come è accaduto, nel pomeriggio di mercoledì 21 febbraio, ad un primario dell'ospedale Cervello di Palermo, colpito da un paziente con un tirapugni, paziente che gli ha fracassato il cranio, tanto che l'uomo è finito in sala operatoria. Il motivo? Il dottore Alfredo Caputo aveva rifiutato all'aggressore la prescrizione di un farmaco. In base ai dati raccolti dall'Inail, ogni anno sono circa 1.600 le aggressioni al personale sanitario. Oltre 4 al giorno.

I numeri sono allarmanti, ma non scendiamo nelle piazze a protestare contro questi fenomeni, ossia quello delle morti sul lavoro e quello degli attacchi fisici e verbali nei confronti degli operatori della sanità.

Facciamo cortei e manifestazioni per i diritti civili della comunità Lgbt, contro il patriarcato, contro il fascismo, contro il cambiamento climatico, ma restiamo muti davanti ad una strage che si consuma ogni dì nelle fabbriche, nei cantieri, negli ospedali. Eppure siamo una Repubblica fondata sul lavoro, in cui il lavoro è stato quindi elevato a valore, elemento essenziale, da garantire, da tutelare, così come da salvaguardare è il lavoratore, o almeno dovrebbe esserlo.

Mi sono convinto anche io che non tutti i morti sono uguali. Ci sono quelli di serie A e quelli di serie B. E questa distinzione viene operata tenendo conto, ad esempio, del genere o della nazionalità. Ma guai a parlare di sessismo o razzismo al contrario! Eppure sta di fatto che se la vittima è donna, allora ci accorgiamo di lei, tiriamo in ballo lo Stato, ci scagliamo contro una presunta cultura patriarcale, tacciamo la destra di diffondere il maschilismo. Se la vittima è uomo, invece, ce ne freghiamo. Vengono ammazzati molti più uomini che donne, ma questo non si dice.

A crepare sul lavoro poi sono quasi sempre i maschi. Forse è pure per questo che gli oltre mille decessi ogni 12 mesi non producono più di tanto riprovazione. Stai certo, caro Giordano, che se si trattasse di femmine, allora sì che lo considereremmo un problema. Allora sì che parleremmo di strage. Allora sì che non faremmo semplicemente spallucce. Allora sì che definiremmo determinate statistiche «bollettini di guerra».

I lavoratori, che siano operai o medici o infermieri, sono stati messi da parte, forse dimenticati, di sicuro abbandonati in particolare da quella sinistra che per tradizione aveva assunto il compito di rappresentarli e che ha finito con lo sposare cause sempre più grottesche e marginali e con il ciarlare sempre e soltanto di un fascismo che non c'è.

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