Scena del crimine

L'arbitro, la funzionaria, il killer: "Un vero omicidio nel giallo di Nora"

"La regola di Nora" di Chiara Ingrosso inserisce il duplice omicidio di Lecce in una cornice romanzesca. "Un delitto interessante per due ragioni"

L'arbitro, la funzionaria, il killer: "Un vero omicidio nel giallo di Nora"

Un vero duplice omicidio che entra in un romanzo. Si tratta de “La regola di Nora” scritto da Chiara Ingrosso, collaboratrice di origine salentina nella trasmissione di Rete4 Quarto Grado, che ha narrato una reale vicenda di cronaca nera - l’omicidio di Lecce - all’interno di una cornice in cui la protagonista è una giornalista, Nora che, come Ingrosso all’epoca dei fatti, torna nella sua terra natale per informare sul delitto.

Il 21 settembre 2020, nella loro casa di via Montello a Lecce, vennero uccisi l’arbitro di Lega Pro Daniele De Santis e la funzionaria Inps Eleonora Manta, che quella sera festeggiavano il primo giorno ufficiale di convivenza. Per l’omicidio è stato condannato in appello all’ergastolo Antonio De Marco, all’epoca studente di Infermieristica, che con la coppia aveva condiviso per un breve periodo una stanza in affitto della casa. A De Marco è stato riconosciuto un disturbo di personalità narcisistica, tuttavia nelle motivazioni della sentenza si legge che “era perfettamente lucido e orientato, in grado di percepire correttamente la realtà. Scelse di uccidere con estrema lucidità”. “È un caso interessante questo, soprattutto se ci si interroga sul perché un essere umano arrivi a uccidere” spiega Chiara Ingrosso a IlGiornale.it.

La regola di Nora” è un romanzo estremamente piacevole da leggere, per via della chiarezza espositiva e per l’ironia che pervade la descrizione di ambienti e situazioni alieni dal delitto tout court. Ma quando si legge dell’omicidio è difficile se non impossibile non empatizzare con quelle due giovani vite spezzate. Ingrosso si muove con maestria e “senso della frase”, per usare un’espressione cara a Pinketts, incalzando la lettura pagina dopo pagina nonostante la vicenda di cronaca nera sia ampiamente nota.

Ingrosso, come mai ha deciso di scrivere del duplice omicidio di Lecce e di mescolarlo a una storia inventata, quella della protagonista Nora?

“È stata una scelta su doppio binario. Da un lato ci sono due ragazzi, Daniele ed Eleonora, nei quali, per età e provenienza, mi sono identificata, anche se non li conoscevo personalmente. Dall’altro lato questo caso presenta delle caratteristiche molto rare”.

In che senso?

“Mentre il femminicidio è statisticamente più comune, questo tipo di delitto ha in qualche modo squarciato il velo di perenne ottimismo e solarità di un territorio come quello salentino, gettando in uno sconforto notevole. Si capiva immediatamente che Eleonora e Daniele non avessero macchie nella loro vita, quindi abbiamo compreso subito che fosse un delitto diverso dagli altri, e gli esiti della vicenda ci hanno dato ragione: l’indagine, l’arresto di Antonio De Marco, il suo diario con la scissione in ‘Vendetta’ hanno dato un quadro completo”.

Perché è così peculiare questo delitto?

“È un caso interessante questo, soprattutto se ci si interroga sul perché un essere umano arrivi a uccidere. Un movente economico è più comune, ma l’opinione pubblica è rimasta colpita dalle ragioni di De Marco. Non c’erano state liti tra loro, anzi l’assenza di contatto lascia ancor più spiazzati. De Marco l’ha scritto: ‘Voglio compiere una vendetta contro Dio e l’universo’ e tra gli effetti personali porta con sé un’immagine sacra, quasi a voler mostrare a Dio cosa stesse compiendo”.

Nel volume, Nora cerca di condurre il suo lavoro con rispetto e deontologia. Quali sono i limiti della cronaca in casi come questo?

“I limiti della cronaca sono legati a tutto ciò che finisce nelle carte. L’autorevolezza di un giornalista è legata a raccontare un fatto e non un pettegolezzo. Mi è capitato in passato di trovare, per un altro caso, dei nuovi testimoni: li ho raccontati solo dopo averli accompagnati in procura a denunciare. La cronaca nera non è e non può essere frutto di fantasia, può diventare molto pericoloso. Ci possono essere dei dettagli accessori che vengono menzionati, ma solo in base alla loro utilità pubblica, per rendere un’idea più completa rispetto a un fatto”.

La cronaca, come spesso accade, anche in questo caso si è concentrata sul killer e non sulle vittime. Ma nel libro si parla di Eleonora e Daniele, di quello che facevano, del ruolo di lui come arbitro, ci si immagina il loro ménage. Crede che questa tendenza giornalistica si possa invertire?

“Per l’opinione pubblica è interessante il simile che uccide il simile, colui o colei che rappresenta l’elemento nero all’interno di un insieme a cui tutti apparteniamo, governato da norme socialmente condivise. E interessa perché quella storia può capitare a chiunque e conoscerla ci aiuta a riconoscere i segnali di pericolo. Per questo, per esempio, si fa tanta prevenzione sul femminicidio. Tra l’altro la retorica sulle vittime rischia di aizzare l’opinione pubblica, condannando direttamente gli indagati o persone che neppure sono state indagate. Ciò che non bisogna mai perdere di vista è comunicare in maniera semplice e corretta”.

Fumetti, anime e manga. Secondo lei, perché la cronaca si è concentrata tanto su queste passioni collaterali di De Marco?

“Questi dettagli non c’entrano nulla con la vicenda e servono solo a demonizzare letture e musica. Dobbiamo ricordare che non tutti hanno le informazioni necessarie per discernere e finiscono per ragionare per luoghi comuni, per semplificazioni. Un po’ come quando si legge il titolo di un articolo senza approfondire. Ma approfondire per alcuni richiede fatica. È importante educare le persone all’approfondimento”.

Antonio De Marco è stato condannato. Crede che per lui sia possibile il recupero, tanto più che nel tempo aveva anche chiesto di essere trasferito nel carcere di Bollate in cui c’è un progetto pilota per la riabilitazione?

“Antonio De Marco ha un gravissimo problema, diagnosticato nel corso delle consulenze psichiatriche, e questo problema consiste nell’assenza di empatia, ovvero ciò che ci permette di ridere a una battuta, di sentirci in sintonia con un altro essere umano, di chiudere gli occhi quando vediamo una scena violenta in un film pur sapendo che è finzione. Quando Antonio usciva con i colleghi, si sentiva sempre diverso, e il disagio derivava dall’assenza di un terreno culturale condiviso. Quanto lui sia recuperabile, secondo me, dipende dall’eventuale accesso a cure specifiche, un lavoro psichiatrico che gli permetta di raggiungere una consapevolezza. Ma in altri casi di cronaca la pericolosità è rimasta. La sua scelta di non ricorrere in Cassazione va letta come volontà restare in carcere, di vivere una vita isolata, in salvo dal pericolo di se stesso”.

Tra i casi celebri trattati in passato, si è occupata dell’omicidio di Luca Varani, tanto da essere una voce nel podcast di Nicola Lagioia La città dei vivi. Crede che le modalità in cui la violenza si rivela negli ultimi anni siano diverse rispetto al passato oppure è diverso il modo in cui fruiamo la cronaca?

“Abbiamo avuto esempi di killer che si sono ripresi in diretta social, una rappresentazione della morte in diretta che entra nelle trame degli omicidi stessi.

Le nuove tecnologie e i nuovi media ci stanno trasformando e il futuro potrebbe riservarci risvolti ancor meno gestibili”.

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