Letteratura

Einaudi, rivoluzionario liberale

Un bel ritratto di Luigi Einaudi lo scrisse a caldo, dopo la sua elezione a presidente della Repubblica l'11 maggio 1948, Giovanni Ansaldo per L'Illustrazione Italiana

Einaudi, rivoluzionario liberale

Un bel ritratto di Luigi Einaudi lo scrisse a caldo, dopo la sua elezione a presidente della Repubblica l'11 maggio 1948, Giovanni Ansaldo per L'Illustrazione Italiana. In quelle paginette, vergate di getto e anni dopo inserite dal figlio in un saporoso libricino dal titolo Stile piemontese (Aragno, 2013), il grande giornalista presentava il nuovo capo dello Stato come «l'ultimo subalpino», come «un uomo all'antica» che, dovendo apporre una firma, non usa il lapis copiativo o la stilografica, ma «intinge la penna nel calamaio, dopo essersi assicurato che il pennino non sia avvilito da nessun peluzzo disturbatore; e che legge attentamente i documenti sotto cui deve mettere il nero sul bianco». Che fosse davvero «un uomo all'antica» lo dimostra anche il suo attaccamento per il suo territorio natale, tra quelle colline piemontesi che, come ricordò in un nostalgico articolo autobiografico, si prestavano «mirabilmente alla coltivazione della vite» grazie alla natura argillosa del terreno e a un sistema di conduzione, la mezzadria, che, ebbe a precisare, «meglio di ogni altro stimola il lavoratore all'operosità per la speranza di maggiori guadagni». Accanto, poi, alla dimensione contadina c'era, in Einaudi, ad assegnarli il tono di «uomo all'antica», un certo suo «stile» di vita caratterizzato da modestia, schiva riservatezza e sobria piemontesità.

Nato 150 anni fa, il 24 marzo 1874, in un paesino sopra Dronero, a poca distanza da Mondovì, apparteneva a una famiglia piccolo-borghese il padre era esattore d'imposte e fin da giovane mostrò attitudine per gli studi. A Torino, dove frequentò l'università e intraprese la carriera accademica, fu uno degli allievi prediletti di un economista, Salvatore Cognetti de Martiis, un ex garibaldino, convinto seguace del darwinismo sociale e creatore di un celebre Laboratorio di Economia modellato sui laboratori biologici e clinici. In questo Laboratorio, Einaudi ebbe modo di conoscere, stringendo con lui una amicizia duratura e affettuosa, Luigi Albertini che, in seguito, lo avrebbe voluto come collaboratore al Corriere della sera.

Al giornalismo, intrapreso parallelamente alla carriera accademica, si dedicò presto: la sua firma apparve sulle colonne di importanti quotidiani La Stampa prima e il Corriere della sera poi e di importanti riviste come la Critica sociale, della quale assunse la direzione nel 1908, Il Giornale degli Economisti, La Riforma sociale. Memorabili furono le battaglie contro l'interventismo statale, il protezionismo doganale, la politica sindacale giolittiana. A Giolitti, in particolare, non rimproverò tanto lo spirito di sopraffazione e la pratica corruttiva quei fattori, cioè, che avrebbero suggerito a Gaetano Salvemini il celebre appellativo di «ministro della malavita» quanto piuttosto certo spicciolo empirismo e certa mentalità «semplificatrice» e soprattutto il «peccato di omissione» di non aver voluto varare una efficiente riforma tributaria della quale egli fu sempre sostenitore. Questo giudizio duro, forse troppo, su Giolitti, pur con qualche ritocco Einaudi lo mantenne inalterato nel tempo. Nel 1941, per esempio, dopo aver richiamato il magistero di Cavour, riconobbe allo statista di Dronero «una dose non comune di intuito politico» ma non una «bastevole preparazione economica» e aggiunse che era privo delle «qualità necessarie a dare il giusto peso ai dati del problema che egli doveva risolvere» precisando che non possedeva neppure «le qualità necessarie per attuare l'idea dell'elevamento delle masse che era nell'aria e che egli professava intendeva far propria». In fondo, Giolitti gli appariva «uno scettico, adusato dalla quotidiana pratica amministrativa ed elettorale a disprezzare gli italiani, che avrebbe dovuto ed a parole diceva di voler innalzare».

Liberale e liberista, guardò con iniziale simpatia l'avvento del primo governo Mussolini soprattutto per la politica economica legata al nome di Alberto De Stefani, ma ne criticò ben presto la tendenza a procedere sulla strada delle «riforme a spizzico» anziché delle «riforme organiche». In questo si differenziò da Piero Gobetti, che lo considerava un maestro e lo volle con sé a La Rivoluzione liberale dov'egli pubblicò gli scritti ora raccolti nel volume Per «La Rivoluzione liberale» (Aragno, pagg. XXII-122, euro 18), ma che, al contrario di lui, fu da subito contrario a Mussolini e al fascismo in nome di un moralismo intransigente.

Il distacco definitivo dal fascismo avvenne per Einaudi all'epoca del delitto Matteotti. In un memorabile articolo, Il silenzio degli industriali, egli fece notare che mentre le forze politiche dichiaratamente antifasciste o comunque non fasciste avevano levato la loro protesta di fronte al delitto solo «i capitali dell'Italia economica» avevano taciuto probabilmente perché continuavano ad avere paura del bolscevismo e a ritenere il fascismo un male minore. Ci fu, poi, quasi a sigillarne il distacco dal fascismo, la sua adesione al Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. Seguirono anni di studio, di lavoro scientifico, che videro Einaudi impegnato, fra le altre cose, a sviluppare una serrata critica a John Maynard Keynes presentato come un genio del paradosso.

Con la fine del regime e la ripresa della vita democratica, Einaudi tornò alla ribalta della vita pubblica: governatore della Banca d'Italia, deputato liberale alla Costituente, vicepresidente del Consiglio e ministro del Bilancio nel quarto gabinetto De Gasperi, legò il proprio nome al risanamento monetario e finanziario del Paese. Eletto presidente della Repubblica nel 1948 anch'egli monarchico come De Nicola, capo provvisorio dello Stato assolse il mandato con stile, correttezza, imparzialità tanto più difficili in quel momento perché il suo settennato coincideva con gli anni della Guerra fredda i cui effetti si facevano sentire nella lotta politica nazionale.

Durante i lavori alla Costituente intervenne su molte questioni politiche ed economiche. Si batté contro la proporzionale definita una invenzione di «aritmetici raziocinatori inetti a capire che i Paesi non si governano con le regole del due più due fanno quattro»; sostenne l'utilità del sistema bicamerale ritenendolo il solo in grado di rappresentare tutte le forze vive della società nazionale; si dichiarò contrario all'istituzione della Corte Costituzionale perché non in grado di offrire garanzie di imparzialità... Molti di questi temi a cominciare dalla polemica contro il valore legale dei titoli di studio li riprese in seguito in un libro, oggi quasi ignorato ma che dovrebbe essere in buona evidenza sulla scrivania di ogni politico: le Prediche inutili.

Come scrittore, Einaudi fu impareggiabile: le sue pagine erano (e rimangono tuttora) godibili per eleganza di stile e finezza di trattazione: val la pena di rammentare che, quando apparve il suo primo importante volume, Un principe mercante. Studio sull'espansione coloniale italiana (1900), Antonio Graziadei, uno dei principali esponenti del dibattito allora in corso sul revisionismo del marxismo, gli scrisse spiritosamente: «sei diventato addirittura un eccellente romanziere-economista; quasi un Verne dell'economia politica».

Quello di Einaudi fu un liberalismo «concreto» e senza compromessi: un liberalismo che considerava il «liberismo», cioè la fede nel «mercato», essenziale per una società veramente libera e democratica. A Croce che aveva sostenuto l'indipendenza dell'idea liberale da qualsiasi tipo di ordinamento economico-sociale storicamente realizzato replicò: «non pare accettabile senza riserva la tesi che la libertà possa affermarsi qualunque sia l'ordinamento economico». Per lui, l'estensione dei diritti civili e politici non poteva prescindere dall'affrancamento dai vincoli della servitù economica. Al fondo del suo pensiero c'era, dunque, l'idea, le cui radici affondavano nella tradizione del moderatismo risorgimentale, della libertà economica come condizione necessaria o pre-condizione della libertà politica. Liberale autentico, meglio liberal-conservatore, e liberista convinto, ma senza accenti antisociali, Einaudi ci ha insegnato davvero, con i suoi scritti e la sua stessa vita, ad amare la libertà, a conoscerne il valore. Ed è per questo che bisogna ricordarlo.

E ringraziarlo.

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