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Indignati per la Salis. Ma le carceri italiane sono come le ungheresi

Alla detenuta Ilaria Salis auguriamo topi e scarafaggi e cimici in cella, uno spazio vitale inferiore agli standard comunitari, un sovraffollamento del 119 per cento

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Alla detenuta Ilaria Salis auguriamo topi e scarafaggi e cimici in cella, uno spazio vitale inferiore agli standard comunitari, un sovraffollamento del 119 per cento rispetto alla capienza prevista (con un aumento del 3,8 per cento rispetto all'anno prima) e uno status da carcerata in attesa di giudizio condiviso col 26,6 per cento dei detenuti, in un ambiente con 85 suicidi in cella nel 2022 (ultimo dato disponibile) e il 40 per cento dei penitenziari costruito prima del 1900 o al massimo prima del 1950, senza acqua calda nel 45,4 per cento dei casi e senza doccia nel 56,7 per cento, nessuna dieta personalizzata (ad esempio in caso di intolleranza alimentare) e nessuna cura per le dermatiti: oltre alle solite, eterne e disgraziate prepotenze della Polizia penitenziaria.

In altre parole, alla detenuta Ilaria Salis, detenuta in Ungheria, auguriamo di poter scontare un'eventuale pena in Italia, in un carcere italiano, perché i suddetti dati sono tratti dal «XIX Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione in Italia» cui si potrebbe aggiungere la condanna al nostro Paese da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo (Cedu) che nel 2009 e nel 2013 ci sanzionò per sovraffollamento carcerario (da noi è del 119 per cento, come detto, mentre in Ungheria è del 102, secondo l'ong finlandese Hhc) ma ancora, nel 2022, sempre la Cedu, ci condannò per i «trattamenti inumani» inferti a un detenuto di Rebibbia che restò senza cure nonostante fosse un grave caso psichiatrico.

Eppure è questo che scrive chi invoca «la possibilità di attendere il processo in Italia» e quindi una carcerazione distante dall'Ungheria e da «condizioni e rischi lontanissimi dagli standard europei» (Corriere della Sera) in quanto «tumulata viva» (Tg3) o meglio «segregata in un mondo alieno, in un baratro oscuro «dove 'l sol tace» (dal diario di Ilaria Salis, riportato come se l'avesse scritto Anna Frank).

Ma il caso Salis, verissimo, è esploso dopo la visione delle immagini che la mostravano in «catene e guinzaglio» in un'aula di tribunale a Budapest: un'indegnità oggettiva (tutti ricordano il caso Carra del 1993, con la maggior parte degli italiani che però era stra-favorevole) che tecnicamente ha mostrato un vetusto genere di «schiavettone» che in Italia non si vede da tempo: ma che c'è lo stesso, in altre varianti. Non si vedono perché è vietato mostrarli, e neppure dalla Legge, ma dal codice deontologico dei giornalisti (1996) secondo il quale «Le persone non possono essere presentate con ferri o manette ai polsi», dopodiché alzi la mano il cronista che non abbia visto dei detenuti condotti non solo in manette lo diamo per scontato ma con catene che li legano gli uni agli altri. Certo, non sempre: quando circolarono le immagini dell'arresto del Matteo Messina Denaro (gennaio 2023) le manette non gliele avevano messe: il che va anche bene, perché si era arreso. Ma l'Europa che ne dice? L'Europa, quella «lontanissima dagli standard ungheresi», in pratica se ne lava le manette: la direttiva 343 del 2016 spiega che «Le autorità competenti dovrebbero astenersi dal presentare gli indagati o imputati come colpevoli, in tribunale o in pubblico, attraverso misure di coercizione fisica, quali manette, gabbie di vetro o di altro tipo e ferri alle gambe»; questo a meno di «ragioni legate alla sicurezza». Quindi non devono astenersi: dovrebbero farlo. Anche la «sicurezza» è un criterio discrezionale. E qui si torna al Rapporto della fondazione Antigone: «È emerso con chiarezza come a monte non vi sia alcuna valutazione concreta relativa al singolo caso». E i ferri alle gambe? Dice la direttiva europea: «La possibilità di ricorrere a misure di coercizione fisica non implica che le autorità competenti debbano prendere una decisione formale in merito». Quasi una supercazzola.

Però ecco, in Italia abbiamo le citate «gabbie», o meglio quei «gabbiotti» che non esistono più da nessuna parte, e non solo nelle aule bunker: ci sono a Milano per i detenuti comuni. «La gabbia metallica può costituire trattamento degradante» spiegava ancora la Cedu nel 2013.

Ma ormai le abbiamo solo noi, perché in Francia, Spagna e persino in Russia usano dei box in vetro o in plexiglass, trasparenti come le finestre di una casa in cui scontare i domiciliari: ciò che è augurabile, se disgraziatamente la condannassero, a Ilaria Salis.

Che poi, a ben vedere: provvedimento più classista di questo non esiste; c'è chi sta in villa e chi in un tugurio che Poggioreale è quasi meglio.

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