Guerra in Israele

L'orrore va mostrato, non premiato

I musi distorti in latrati di gioia sanguinaria non sono il dettaglio peggiore

L'orrore va mostrato, non premiato

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L'orrore va mostrato, non premiato

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I musi distorti in latrati di gioia sanguinaria non sono il dettaglio peggiore. Le fauci urlanti dei terroristi di Hamas, che come iene trascinano via la preda di cui sfamarsi, richiamano l'attenzione, ma non sono il centro della scena. No, il terribile centro di gravità dell'immagine - scattata dopo l'eccidio del 7 ottobre al Nova Festival - è poco più sotto, sul (...)

(...) fondo del pick-up, dove un inerme corpo umano di donna è ridotto a poggiapiedi seminudo, carne avvilita e calpestata dagli stivali di chi l'ha rapita, violentata, uccisa e poi la decapiterà. Lei si chiamava Shani Louk, aveva 22 anni, faceva la tatuatrice e un pezzo del suo cranio è l'unica cosa che è stata ritrovata di lei. Insieme a questa straziante istantanea finale: la «foto dell'anno» per il «Donald W. Reynolds Journalism Institute» dell'Università del Missouri, la più antica scuola di giornalismo d'America.

Scegliere questo scatto della Associated Press come «Team Picture Story of the Year» ha comprensibilmente scatenato un ciclone di polemiche. Molti, tra cui il New York Post, hanno accusato i giudici di mancare di rispetto alle vittime israeliane dei raid del 7 ottobre e di «normalizzare» così la mattanza, di fatto giustificando e facendo proprie le posizioni filo Hamas. Il padre di Shani ha invece applaudito la scelta, perché la foto del cadavere di sua figlia «è una delle immagini più significative degli ultimi cinquant'anni». E così si ripropone l'infinito dibattito sul senso, la missione e la responsabilità storica delle immagini.

«Osceno» è un termine che indica quel che non dovrebbe trovare spazio sulla scena, la cui rappresentazione è contraria al costume e alla sensibilità, al senso del pudore di un certo momento storico. La realtà può essere insopportabilmente orribile. Ma quando ciò accade, è sempre e comunque vietato documentarla e mostrarla? Gli scatti delle fosse comuni di Bergen-Belsen, dei bimbi ebrei su cui sperimentava Mengele, dei sopravvissuti scheletriti di Auschwitz, hanno gettato luce sulla più grande tragedia del Novecento. La «napalm girl», la ragazzina vietnamita coperta di ustioni, ha contribuito alla rivolta dell'opinione pubblica contro le operazioni speciali dei marines a Saigon e dintorni. E ancora «l'uomo che cade», l'impiegato anonimo delle Torri gemelle immortalato mentre cade, come la carta dei tarocchi dell'Appeso, è diventata il simbolo delle vittime innocenti dell'11 settembre. Ha dunque senz'altro ragione Nissim Louk quando auspica che la straziante ultima immagine di sua figlia non venga censurata e dimenticata, che continui nei decenni a ricordare al mondo la disumanità di quei miliziani di Hamas che troppa sinistra continua a guardare con simpatia per ragioni ideologiche e post-coloniali.

Eppure qui non si sta parlando semplicemente del braccio di ferro fra il valore della testimonianza e quello del pudore. I fotoreporter che hanno scattato le fotografie dell'eccidio del 7 ottobre erano stati «invitati» dai terroristi, non si sono trovati per caso nel posto giusto al momento giusto. Hassan Eslaiah era stato allertato la sera prima da un dirigente di Hamas, perché al Nova Festival ci sarebbe stato un «evento straordinario». Altri tre colleghi, Yousef Masoud, Ali Mahmud e Hatem Ali, erano stati contattati nello stesso modo. I nazisti volevano coprire lo sterminio perpetrato nei lager, gli americani non si vantavano delle stragi di civili con il gas esfoliante, e le foto che hanno squarciato il velo di verità hanno avuto una funzione. Il 7 ottobre è stato diverso. Hamas voleva che il mondo vedesse i civili israeliani fatti a pezzi in maniera atroce. E i reporter hanno risposto all'appello, se non per comunanza di ideali almeno per narcisismo. E hanno così dato la perfetta «copertura mediatica» ai killer. Reclutati, embedded, usati come propaganda da degli assassini, non si sono rifiutati, né ribellati, né hanno mosso un dito per mettere in guardia centinaia di civili destinati a finire sgozzati. Hanno fatto il loro «dovere». Di giornalisti o di uffici stampa di tagliagole, questo ognuno lo deciderà in coscienza.

Ecco perché questa foto, che tutti noi abbiamo il dovere di pubblicare e ricordare, deve essere mostrata. Ma fra mostrare e premiare passa un mare. Quello che separa il sacro lavoro di chi documenta l'orrore per far sì che il mondo prenda le distanze e il viscido collaborazionismo di chi per uno scoop si rende corresponsabile del male.

Marco Zucchetti

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