Cronache

"Percentuali, non numeri". Il matematico e la verità sulla curva dei contagi

Il professor Giovanni Sebastiani spiega a ilGiornale.it come interpretare il bollettino del Covid e come la matematica può aiutare nella gestione della pandemia

"Percentuali, non numeri". Il matematico e la verità sulla curva dei contagi

Matematica e medicina, due scienze apparentemente lontane, ma in realtà molto vicine e utili l’una all’altra, soprattutto in questo periodo di pandemia. Non sempre però questo avviene. E alcune scelte mediche, spesso influenzate dalla politica, risultano poi matematicamente errate, con conseguenze che toccano le persone. Green pass, curve di infezioni, vaccini, modalità di leggere i dati giornalieri, di questo e molto altro abbiamo parlato con il professor Giovanni Sebastiani - matematico presso l'Istituto per le Applicazioni del Calcolo "M. Picone" del Consiglio Nazionale delle Ricerche -, che si occupa di modelli e metodi stocastici e di statistica bayesiana per applicazioni in Medicina".

Professore, molti dicono che siamo arrivati in cima alla curva. Cosa succederà ora e quanto tempo ci vuole, secondo i suoi calcoli, per farla abbassare?

“In realtà, il valore medio della curva della percentuale dei positivi ai test molecolari (l'indice che meglio descrive la circolazione del virus) ha avuto un massimo il 6 gennaio, pari a circa il 25%, e da allora è sceso a circa il 20%. Se continuerà o meno a scendere e di quanto è ignoto e dipenderà dagli effetti quantitativi (ritardati) delle attività legate ai saldi e della riapertura delle scuole. Se non ci fosse la vaccinazione, la curva dopo un certo tempo ripartirebbe perché ci sono articoli scientifici su centinaia di Stati che mostrano che il ritorno in aula induce un aumento dell'Rt del 25% circa. Con la vaccinazione le cose cambiano, ma il problema è che nella fascia 5-11 anni la copertura vaccinale è inferiore al 15% e in quella 12-19 anni all'80% con una minoranza di terze dosi, che con la variante Omicron sembrano necessarie. Purtroppo i dati degli ultimi due giorni, mostrano una frenata della decrescita, ma occorrono più dati per capire se si tratta realmente di un trend o invece siamo di fronte a fluttuazioni casuali.

Parliamo dell’obbligo vaccinale per gli over ’50, secondo i suoi dati è una scelta che aiuterà la copertura?

“Questa scelta nasce dall’obiettivo che si prefigge il governo di limitare la crescita delle ospedalizzazioni, che a livello nazionale hanno raggiunto il 30% circa nei reparti ordinari e il 18% circa in quelli di terapia intensiva. Lo si vuole raggiungere andando a diminuire il bacino di persone che, se colpite dal Covid, necessitano di ospedalizzazione. Il governo ha identificato questa classe di popolazione con quella di età superiore ai 50 anni. Io ho fatto uno studio di simulazione con il più semplice modello matematico noto per questo tipo di epidemia, che si chiama SIR, dove ho inserito due tipi di popolazione. Quella dei giovani che diffondono di più e quella degli over 50 che sono meno diffusivi ma, se colpiti dal Covid, necessitano con grande probabilità di un ricovero in ospedale. Ho introdotto queste due classi, perché l’intuizione mi suggerisce che, se agiamo anche su chi veicola l'infezione di più, otteniamo un'efficacia maggiore. Questo perché è noto che un’epidemia non si estingue quando finiscono i soggetti suscettibili, ma quando scarseggiano le persone infette. Ovvero alla fine c'è una percentuale diversa da zero, anche significativa di persone, che non sono state ancora infettate. Ho considerato 2 milioni di soggetti per ognuna delle due categorie. Se riduciamo il numero iniziale degli over 50, si riduce della stessa misura il numero di ospedalizzazioni. Abbiamo quindi una riduzione lineare. Se invece riduciamo contemporaneamente della stessa misura anche il numero di persone che veicola di più l'infezione, la riduzione è quadratica. Per dare dei numeri: se dimezziamo solo il numero di over 50, pressappoco riduciamo della metà il numero di ospedalizzazioni, ma dimezzando anche il numero di chi veicola di più, possiamo ridurlo fino a un fattore 40. Questo risultato mi porta a dire attenzione, oltre a mettere l’obbligo per gli over 50 mettiamolo anche per la fascia che veicola di più, quella che va dai 12 ai 30 anni, dove, come abbiamo visto, ci sono problemi con la copertura vaccinale. Conviene agire su questa fascia d'età rispetto a quella 5-11 anni, che parte da un livello di copertura molto più basso e ha un numero medio di contatti giornalieri significativamente più piccolo. Ora abbiamo tanti adolescenti negli ospedali e questo è il costo che stiamo pagando per l'errore di aver introdotto il green pass (semplice) solo per gli studenti universitari e non per i liceali".

Quali sarebbero i problemi nel mettere in atto questa sua ipotesi?

“Rispetto a questa domanda, io farei addirittura un passo indietro. Nel Cts ci sono pochi esperti delle scienze quantitative, non c’è un matematico, un fisico, un ingegnere, un informatico, un biochimico, un economista, che sarebbero sei tipologie molto importanti per affrontare il fenomeno complesso della pandemia attraverso un approccio multidisciplinare. Non essendoci, è difficile far comprendere ad esempio ragionamenti basati sulla matematica. Un altro problema sono i dati. Ho scritto recentemente un libro che si chiama 24 ore con un matematico (Piemme Mondadori), cedendo compenso e diritti a Medici senza Frontiere, dove critico alcune scelte del governo, come quella di non mettere a disposizione della comunità scientifica i dati in forma disaggregata. Non sono solo io a dirlo, la richiesta di dati più informativi è già venuta a suo tempo anche dal fisico Giorgio Parisi. Forse ora sarà accolta, dopo che gli è stato assegnato il premio Nobel. Manca la sensibilità verso un approccio quantitativo. Per fare un esempio, con Giorgio Palù presidente dell'Aifa e membro del Cts, abbiamo pubblicato 5 lavori scientifici su riviste internazionali che vertono sul Covid-19. Uno tra questi, eravamo all’inizio della campagna di vaccinale, riguardava un metodo matematico per vaccinare cercando di limitare sia la mortalità che la diffusione del virus. Visto che queste due esigenze chiaramente contrastano tra loro, perché da una parte bisogna vaccinare i soggetti anziani, e dall'altra quelli più giovani. Avevamo fornito una ricetta che poteva risolvere entrambi i problemi in modo ottimale. Ma è stata ignorata. Hanno cominciato con i medici, poi le forze dell’ordine, e solo dopo una certa data hanno iniziato a fare distinguo, agendo anche su chi veicolava il virus di più, ma dopo aver agito sulle categorie più fragili”.

Secondo lei parlando di dati, quelli che vengono forniti ogni giorno, quanto sono fondamentali?

“È fondamentale fornire i dati giornalmente, sia ai ricercatori che alla popolazione, e nel secondo caso, il modo di comunicarli è molto importante. È chiaro ad esempio che il numero degli infetti è influenzato dal numero dei test. Quando ascolto di recente notizie tragiche come “Il numero più alto da inizio pandemia” mi viene da sorridere, perché ora facciamo un milione di tamponi al giorno o più, quindi ovvio che sia così, rispetto agli inizi quando se ne facevano 200mila. Se guardiamo la percentuale dei positivi, solo dei test molecolari che sono i più affidabili, ci accorgiamo che in passato il punto più alto di infetti è stato raggiunto ad inizio pandemia. Il 25%, nella seconda metà di marzo 2020. Ora siamo di nuovo al 25% circa, che però non è 20 volte di più come per il totale di positivi a entrambi i tipi di test. Tutti sono focalizzati sul numero dei positivi, ma questo non misura realmente l’evoluzione della pandemia, perché è influenzato dal numero dei test".

Ci sono diversi modi per leggere i dati, vale anche per quelli giornalmente forniti?

“In generale è importante fornire dati che siano il più sensati e informativi possibili. Anche volendosi focalizzare sull’incidenza, considererei separatamente i positivi ai test molecolari e a quelli antigenici, ma solo quelli per le nuove persone testate rispettivamente, evitando così le ripetizioni. Questi due tipi di dati non andrebbero mescolati, perché hanno sensibilità e frequenze di positività diverse. Ma invece succede. Per ciascuno dei due tipi di positivi, si potrebbe anche specificare quanti sono i sintomatici. Un altro dato importante, è quello dell’occupazione dei reparti. Questo dipende da due fattori. Immaginiamolo come un serbatoio che contiene un liquido. Il livello dipende dal flusso d’ingresso e da quello d’uscita. Il dato che misura lo stress indotto dalla circolazione del virus sugli ospedali è quello degli ingressi giornalieri in terapia intensiva, così come quello nei reparti ordinari e non quello dell'occupazione delle terapie intensive e dei reparti ordinari, anch'essi importanti per altri motivi. Anche la variazione giornaliera dei valori non ha molto senso. Andrebbero dati dei trend e fatte medie locali, e mostrati grafici e mappe. Questi sono i dati che andrebbero aggiornati, non gli altri, come ad esempio il numero di persone in isolamento domiciliare, presente sul bollettino giornaliero. D'altro canto, per chi come me analizza i dati, sarebbe molto utile averli in forma disaggregata. Prendiamo i decessi o gli ospedalizzati: ci sono solo a livello regionale, ma non provinciale. Sempre per i decessi, considerando altri tipi di dati, come l'età, il genere, il titolo di studio, il numero di comorbidità (coesistenza di più patologie diverse in uno stesso individuo ndr), il tempo tra diagnosi e decesso, sarebbe possibile distinguere tra morti a causa del Covid oppure con il Covid ”.

Professore quali sono le cifre che ci devono preoccupare?

“Sicuramente la percentuale dei positivi ai test molecolari e gli ingressi ospedalieri, così come i decessi. Dal mio punto di vista sono queste le tre principali grandezze che vanno controllate. Se c'è un cambiamento nell'andamento dell'epidemia lo vediamo prima nella curva della percentuale e dopo due-tre settimane appare un cambiamento simile nella curva degli ingressi in terapia intensiva e in quella dei decessi. È chiaro quindi che è più facile fare previsioni per le ultime due curve. Per la variante Omicron c'è però una differenza. Infatti nelle ultime due settimane, la curva dei decessi sta subendo un'impennata, che segue quella della percentuale avvenuta nelle ultime tre settimane del 2021, mentre questo non accade per quella degli ingressi in terapia intensiva, che ora è in crescita frenata, anzi è vicina a un massimo. Penso che questo si spieghi con la diversa sintomatologia indotta dalla Omicron, con una frequenza molto più bassa di polmoniti, motivo principale di ricovero in terapia intensiva. Al contrario, la mortalità con questa variante non è ridotta, a causa dell'alto numero di infetti e della limitata percentuale di terze dosi, che sembrano necessarie in questo caso".

Qual è la variante che lei attenziona di più al momento?

“La Omicron, ma in generale il sequenziamento da noi viene fatto pochissimo. Quella delle varianti rimarrà comunque la più rilevante incognita. Dai primi dati speravo che la Omicron fosse risolutiva. Con i numeri del Sudafrica ho fatto un’analisi considerando la letalità apparente, ovvero quanti decessi abbiamo al giorno diviso per il numero di positivi che ci sono stati circa quattordici giorni prima. Questa era tre volte più bassa di quella della Delta di giugno. Questo dato è certamente positivo, ma speravo meglio. Ovviamente poi, rispetto al Sudafrica, noi abbiamo più persone anziane che sono più vulnerabili, quindi è possibile che da noi questo fattore sia un po’ più piccolo di 3. Ora sta progressivamente aumentando la prevalenza della Omicron, immunizzando chi non si è vaccinato, e potenziando l’immunizzazione di chi si è vaccinato. Questo è positivo per il futuro, però negli ultimi sette giorni abbiamo superato i 300 morti al giorno in media, quindi un prezzo da pagare ci sarà. Affermazioni come ho sentito che la Omicron porterà certamente alla fine dell’epidemia, io non mi sento di farle. Perché nel mondo ci sono grandi differenze in termini di densità di popolazione, condizioni economiche, standard di vita e copertura vaccinale, per questo penso che nuove varianti pericolose si possano sviluppare, che poi possono arrivare anche nel nostro Paese. Fino a che non ci metteremo in testa a livello mondiale che il bene del singolo viene raggiunto quando viene raggiunto quello di tutti, non ne usciamo. Le varianti, almeno quelle che si sono affermate, sono nate una in Brasile, un’altra in Perù, due in Sudafrica, una dall’India e l’altra, la famosa Inglese, è l'unica che si è sviluppata in Europa (anche se io ritengo in Danimarca, negli allevamenti di visoni). Sono tutte zone tranne l’Inghilterra, dove ci sono tantissime persone, povertà, scarsi standard igienici, bassa copertura vaccinale, e già lì si moriva molto, forse di più, per altri tipi di malattia che non di Covid”.

GIOVANNI SEBASTIANI

Parlando invece di vaccini?

“Anche questo è un altro punto importante. Un mio studio comparativo sull’efficacia dei vaccini, dice che gli effetti, ad esempio in termini di mortalità, andrebbero valutati quando le condizioni sono eque. Questo vuol dire che non si può andare a confrontare a parità di numero dei positivi, che dipende dal numero dei test, ma di percentuale dei test positivi. Se si controlla qual è stata l’evoluzione dei decessi medi negli ultimi tre mesi dello scorso anno, in funzione di questa percentuale, si vede che la crescita è debole. Se invece si va a vedere come cresce nello stesso periodo dell'anno del 2020, quindi prima che venisse messa in atto la campagna vaccinale di massa, ci si accorge che, a parità di percentuale, la riduzione della mortalità è anche di 6 volte. Questo mostra in modo inequivocabile che i vaccini sono un'arma molto efficace per limitare i decessi, e questo vale anche per le forme gravi della malattia”.

Per tornare al suo lavoro, lo abbiamo già accennato ma è importante che lo spieghi meglio, qual è il contributo della matematica nell’aiuto della gestione della pandemia?

“Si possono svolgere delle analisi, come ad esempio, su come si è diffusa un’ondata. Ho determinato che l'ondata che ha preceduto quella della Omicron, era stata originata principalmente dal flusso di persone attraverso i nostri confini con Slovenia e Austria. L’analisi in questo caso, può essere molto utile per poter intervenire per esempio intensificando i controlli alle frontiere. E come si è visto se non viene fatto si pagano poi le conseguenze. Anche qui, ritorno al discorso fatto prima sui dati. Se venissero condivisi di più e in forma disaggregata, si potrebbero analizzare in modo più completo. Questo può aiutarci a individuare i fattori più rilevanti che influenzano la diffusione del virus, e agire su essi allo scopo di evitare che gli stessi effetti si possano ripetere in futuro. Ad esempio la Omicron non si è diffusa a livello omogeneo in tutte le nostre regioni, ma si è propagata a distanza lungo la dorsale del Paese. Quindi appena si osserva un significativo incremento in una zona, andrebbero limitati i flussi di persone, almeno quelli tra regioni. Inoltre l'esplosione iniziale è stata concentrata in Toscana, dove invece c'è la copertura vaccinale più alta in Italia. Avere altri dati, ad esempio sui flussi di traffico tra province, aiuterebbe a comprenderne le cause”.

Un’ultima domanda, quanto i contrari al vaccino influiscono nell’aumento delle infezioni?

“Noi ora abbiamo una copertura media del 78% circa. Il problema non è solo quel 22%, ma anche che circa un terzo di chi ha fatto due dosi non ha la terza, e la vaccinazione viene spesso in questo caso bucata dalla Omicron. Alcuni di questi soggetti la prendono in forma lieve, però possono diffonderla e nel frattempo arriva qualcuno di quel 22%, che si infetta dando quindi un contributo addizionale all’ospedalizzazione. Inoltre bisognerebbe capire che vaccinarsi è importante anche per tenere bassa l'incidenza. Il pericolo maggiore di convivere con un’alta incidenza è quello di sviluppare ulteriori varianti pericolose e che potenzialmente possano bucare i vaccini. Per la Delta l’efficacia con una dose crollava, bisognava farne 2. Con la Omicron l’efficacia con due dosi (dopo quattro mesi) crolla e bisogna farne 3. L’asticella si è spostata ma qualitativamente è la stessa situazione. Il problema più grande è quindi quello delle nuove varianti. C’è da sperare che Omicron si diffonda dappertutto nel mondo senza che si sviluppi nel frattempo una nuova variante con caratteristiche peggiori, ad esempio una maggiore letalità e resistenza ai vaccini già somministrati.

Anche qui la matematica ci può aiutare: col professor Palù abbiamo appena iniziato a collaborare proprio per stimare la probabilità che questo accada”.

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