Cronache

"I partigiani uccisero i miei genitori e mi slavizzarono"

Graziella Gianolla aveva solo nove anni quando venne rapita da una banda titina. "Non ho più rivisto i miei genitori"

"I partigiani uccisero i miei genitori e mi slavizzarono"

"Il 31 gennaio del '44 portarono via mio padre, mio zio e uccisero mio cugino". Graziella Gianolla aveva solo nove anni quando venne rapita da una banda di partigiani titini e slavizzata a forza. Ora di anni ne ha 83, vive a Trieste, ma di quella terribile notte, di quando il padre le disse "Torno subito" e di quando si vide strappare la madre da sotto gli occhi, Graziella ricorda tutto. E così nella sua casa, con una sigaretta in mano, i capelli bianchi, gli occhi verdi e una forza incredibile comincia a raccontare (guarda il video).

"Quella notte portarono via mio papà e mio zio e uccisero mio cugino. Ricordo tutto perché stavano bombardando Trieste e dalle finestre si vedeva. Mio papà, Aldo, si sentì chiamare. Prese lo schioppo, corse giù per le scale e mi disse 'Chiudi la porta perché vengo subito', ma i partigiani entrarono in casa, aprirono il negozio che avevamo, presero mio padre e si sentì sparare. Da lì più niente. Io mio padre non l’ho più visto".

La notte nel bosco e il distacco dalla madre

Graziella nel 1944 viveva a Momiano, un piccolo paese dell’Istria centrale. "Restammo a lungo a lì, speravamo sempre che loro tornassero e invece a ottobre sono venuti a prendere noi, me e mia madre. Era il 6 ottobre. Una notte di pioggia, ci fecero andare lungo una salita e io vedevo che scendevano dei carri con dei buoi, perché svaligiavano le case. Mi ricordo che passai l’intera notte in un bosco fitto insieme a mia madre e a loro. Poi al mattino dopo mi portarono in un molino e mi diedero da mangiare una pannocchia. Ma ricordo quel doloroso distacco da mia madre. Non poté nemmeno salutarmi, abbracciarmi, perché la spinsero e la gettarono in un cespuglio. Mi dissero che non avrei più dovuto nominarla perché era una spia".

Preda dei partigiani

Le persone che fino a qualche tempo addietro indossavano le camicie nere, diventarono partigiani. Gente che Graziella conosceva bene. In quell’inferno, lì tra i fienili, costretta ad assistere anche al sesso libero tra i partigiani, Graziella ci rimase per dieci mesi, fino alla liberazione. Era piccola, minuta, a volte non riusciva a camminare e qualche partigiano più umano se la caricava in spalla, durante le marce notturne. "Nel bosco dovevo scappare con loro, si scappava da un paese all’altro – racconta - Seguivo i partigiani". Graziella non poteva parlare italiano e non sapeva mezza parola di croato.

Poi una partigiana la prese e se la portò a casa. "Qui – ricorda Graziella – mi tolsero il vestino rosso che avevo. Lo aveva fatto da mia madre. E quando me lo tolsero ero piena di uova di pidocchi che mi caddero addosso. Mi hanno pulita e mi hanno tenuta lì. Ricordo che mi diedero anche una cintura con una pistola: aveva tre colpi. Mi misero un berretto con la stella rossa, si scappava perché i tedeschi c’erano ancora e se mi avessero presa, mi avrebbero uccisa. Sono tornata a casa dopo mesi di agonia, ne ho viste di tutti i colori".

La ricerca della madre

Ma sua madre, Graziella non l’ha più vista. "Non potevo nemmeno chiedere di lei – racconta – quando sono tornata a Trieste, ricordo che mi guardavo in giro per vedere se riconoscevo mia madre. Poi vent’anni fa ho saputo che era vivo un certo partigiano, Antonio. Un giorno nel nostro negozio, mia madre voleva dargli un anello e lui la prese e le diede uno schiaffo, buttandola sui sacchi di farina. Ricordo ancora quella mano, l’ho sognata per anni. Io e mio marito, vent’anni fa, siamo andati a Pola a incontrarlo. Ho riconosciuto subito quella mano che da piccola mi era sembrata così gigante. Ci ha fatto entrare e ci ha offerto di tutto. Volevo sapere dove erano finite mia madre e le altre donne che erano con me. Mi disse che state giudicate, ma che non serviva l’avvocato, bastava la parola del partigiano. E quindi non lo so, se sono finite in foiba, non lo so, so solo che non sono più tornate".

Viva grazie al fratello

Graziella da quell’inferno è riuscita a uscire grazie al fratello, che sapendo che lei era ancora viva, andò con i partigiani. "Quando l’ho rivisto – racconta – fu una tragedia, era sotto un albero vestito da partigiano, ho pensato mi avesse tradito e invece l’aveva fatto per me. Era l’unico modo per riportarmi a casa e farmi uscire di lì. Ora non so, se bene o male, ma sono qua.

Dimenticare non si può, bisogna andare avanti, altrimenti ti ammali, io ho continuato a pregare, per quello vivo, perché altrimenti non vivi, con questi ricordi non vivi".

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