Coronavirus

"Io per tre mesi in prima linea, vi racconto l'inferno del Covid"

Un'infermiera dell'ospedale di Saronno, in esclusiva per ilGiornale.it, ha raccontato le dure settimane vissute nei reparti covid della struttura in cui lavora da 15 anni: "Viste cose surreali"

"Io per tre mesi in prima linea, vi racconto l'inferno del Covid"

La pandemia da coronavirus sembra aver finalmente attenuato la sua morsa sull’Italia e nel corso di queste dure settimane medici ed infermieri hanno fatto salti mortali per salvare vite umane con ritmi di lavoro forsennati e in situazioni difficili da gestire. Molte strutture sono state completamente dedicate al Covid-19 e tra queste anche l’ospedale di Saronno, in provincia di Varese.

La struttura ospedaliera varesotta è nata negli anni 60’ e ad oggi vi lavorano circa 1500 dipendenti tra sanitari (medici, infermieri, fisioterapisti, O.S.S ecc) e personale amministrativo. Prima della pandemia da coronavirus erano operativi i reparti di chirurgia generale, il reparto polispecialistico chirurgico (urologia, otorinolaringoiatria, oculistica e ginecologia), il reparto di neurologia, di medicina generale, di oncologia, di cardiologia, di psichiatria, e di pediatria/ostetricia.

Non solo perché l’ospedale di Saronno, punto di riferimento importante sul territorio, comprende anche un reparto di day surgery chirurgico, day Hospital oncologico, rianimazione e unità di cure intensive coronariche (UTIC), dialisi, più i poliambulatori, fisioterapia, neuropsichiatria infantile e il servizio di radiologia.

Essendo diventato un ospedale quasi completamente dedicato all’emergenza coronavirus molti reparti sono stati chiusi per far spazio ai tanti malati provenienti da diverse parti della Lombardia tra cui Bergamo, una delle zone maggiormente falcidiate dal virus.

In esclusiva per ilGiornale.it, Federica Canciani un’infermiera dell’ospedale di Saronno, di solito impegnata in sala operatoria, ha raccontato la sua estenuante e significativa esperienza in queste settimane delicate e drammatiche per via della pandemia da coronavirus che ha investito l’Italia e il mondo intero:

Lavoro nel reparto di Sala Operatoria presso l'ospedale di Saronno da circa 15 anni. A fine marzo, quando la struttura era stata riconvertita in ospedale totalmente dedicato al Covid-19, sono stata riassegnata al reparto Covid1. Dell'ospedale che conoscevo non era rimasto molto: reparti, ambulatori e servizi chiusi fino a data da destinarsi”, inizia così il racconto della donna.

Che situazione avete vissuto all’interno della vostra struttura ospedaliera fin dall’inizio di questa pandemia?

“Devo ammettere che è stata dura. In televisione la Protezione Civile snocciolava i numeri sui contagi, sui ricoveri e sul numero dei deceduti. Saronno era tristemente in linea con quei dati che salivano di giorno in giorno”.

Saronno ha fatto uno sforzo consistente per ampliare la terapia intensiva passando da otto a sedici posti letto. Come avete vissuto quei giorni convulsi?

“In televisione si sono viste tante terapie intensive e i servizi sui vari pronto soccorso si sprecavano. Ma posso assicurare che anche nei reparti di degenza la situazione era molto complessa e che i colleghi hanno lavorato sempre con impegno e dedizione. Abbiamo fatto il massimo in questo momento delicato per il nostro paese e noi come ospedale di Saronno ci siamo messi completamente a disposizione della collettività”.

Com’è strutturato un reparto Covid? Ci racconti un po’ la tua esperienza?

“Un reparto Covid sembra, a chi vi accede per la prima volta, surreale. Tutte le porte delle camere di degenza sono chiuse per l'isolamento. Le misure igienico-sanitarie sono rigidissime. Nessun visitatore, nessun effetto personale o di casa, compresi generi alimentari. Tutti i pazienti erano uguali, tutti con il camice fornito dall'ospedale. L'unica eccezione è il telefono; oggetto preziosissimo che gli permette di avere un contatto con i parenti fuori. Nel pieno periodo di pandemia ho visto anche gruppi familiari ricoverati. Quando i posti letto erano disponibili venivano ricoverati nelle stessa stanza di degenza, per tenerli uniti. Genitore e figlio, marito e moglie, si è visto di tutto e di più”.

I pazienti come hanno reagito una volta guariti e saputo di aver sconfitto il virus?

“La paura del virus rimane anche quando i pazienti sono dimessi. Spesso non volevano portare a casa i vestiti con cui accedevano al pronto soccorso, per paura che potessero riportasi a casa il virus. Per andare a casa potevano farsi venire a prendere da un parente solo se quest'ulltimo non erano in isolamento protettivo; altrimenti dovevano chiamare un servizio di ambulanza. Il distanziamento sociale per le persone dimesse era obbligatorio per altri quindici giorni anche a casa. Se non si aveva a disposizione un secondo bagno e una camera per l'isolamento non era possibile tornare a casa subito. Si doveva rimanere isolati altri 15 giorni dall'ultimo tampone negativo”.

Il vostro è già un lavoro estenuante durante tutto l’anno: lo sarà stato ancora di più in queste settimane terribili. Ci racconti un po’ come si svolgeva la tua giornata lavorativa?

“Le attività ordinarie in un reparto Covid-19 sono quelle di un qualsiasi reparto di degenza: consegna, terapie, igiene dei pazienti, distribuzione dei pasti, giro visite con il personale medico; Ma con i pazienti in isolamento diventa tutto più complicato e le esigenze dei degenti si diversificano. Si inizia il turno ascoltando la consegna, fatta principalmente di flussi di ossigeno, mascherine, caschi e naturalmente tamponi nasali: primo, secondo, positivo o negativo… Al termine della consegna ci si prepara per entrare nelle camere. La vestizione è una procedura da eseguire con calma e meticolosità, perché oltre a proteggere te stesso, si pensa sempre ai propri familiari, che mai vorresti contagiare. Calzari, tuta o camice, doppi guanti che a contatto con i pazienti diventano tripli, mascherina, occhiali o visiera e scafandro. Le immagini dei visi segnati dalle mascherina si vedono in qualsiasi canale di comunicazione presente, ma il dolore di quei segni a fine turno li può capire solo chi li ha vissuti”.

I numeri sono in netto calo in tutta Italia anche se in Lombardia la situazione resta delicata. Con i pazienti anziani è stato difficile a livello comunicativo ed emotivo?

“Ad oggi i numeri dei contagi sono in diminuzione, l'ospedale sta cercando di riaprire anche delle attività ordinarie chiuse per l'emergenza Covid-19. La comunicazione è stata dura e complicata: le mascherine sono state un grosso ostacolo, soprattutto nei pazienti anziani. Mettere in carica il telefono a fine giornata o aiutarli a fare una videochiamata ai parenti potrebbe sembrare un gesto banale nella quotidianità, ma nella realtà di un reparto Covid diventa essenziale come lavarsi e assumere i pasti”.

Qual è stato l’aspetto più difficile in questi mesi di duro lavoro?

“L'aspetto più impegnativo di questa esperienza è stato l'impatto emotivo. I degenti erano spesso impauriti per la malattia e l'isolamento. Cercavamo sempre di dare loro conforto e rassicurazioni. Il reparto era formato da colleghi che venivano da realtà diverse. La riorganizzazione dei reparti Covid mi ha permesso di lavorare con colleghi che non conoscevo, perché ubicati in altre unità lavorative”.

Ti senti di ringraziare qualcuno in particolare e qual è il tuo messaggio per ripartire?

“Ringrazio tutti

indistintamente, perché torno in sala operatoria con la consapevolezza che da tutti ho imparato qualcosa. Un messaggio? La paura può essere sconfitta solo dalle misure precauzionali e dalla voglia di ricominciare a vivere”.

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