Cultura e Spettacoli

"La crisi è una balla ma quando c'è fa bene"

Per Gillo Dorfles le difficoltà hanno fatto cambiare le consuetudini. E arrivato a 104 anni, confessa: "Sono felice ma ora l'età mi pesa un po'"

"La crisi è una balla ma quando c'è fa bene"

Nella penombra del suo salotto al sesto piano di un condominio anni Trenta dove si respira la Milano della borghesia operosa di altri tempi, tutto parla di una lunga vita trascorsa in nome della cultura. A cominciare dai libri accatastati con ordine ovunque - persino sul pianoforte - per passare alle opere d'arte che costellano le pareti e, nel caso delle sculture, sul pavimento lucido di cera. Gli autori, tutti grandi nomi dell'arte italiana del Dopoguerra, sono stati gli amici e i compagni di strada di colui che è considerato il Grande Vecchio della critica, anche se il titolo è sicuramente riduttivo. Angelo «Gillo» Dorfles, triestino e di madre genovese ma naturalizzato a Milano, di avventure ne ha affrontate tante, scrivendo anche pagine di storia indelebili. Medico dottore in psichiatria («un piccolo sbaglio di gioventù», sorride), scrittore, artista, accademico, poeta e persino pianista. Anche se, ci tiene a precisare, «la mia vera professione è stata sempre quella di docente di Estetica»; principalmente all'Università di Milano, ma anche a Trieste e Cagliari. Il prossimo aprile compirà 105 anni: portati in modo eccellente, visto che ancora oggi viaggia, scrive, dipinge e tiene conferenze.

Avrebbe mai immaginato di vivere così a lungo, professore?

«Francamente no. Il fatto di esserci arrivato bene mi fa piacere, ma tutti questi anni pesano un po'».

Fontana, Capogrossi, Dorazio, Scialoja, Scanavino, questi quadri sono una bella collezione di ricordi oltre che un pezzo di storia dell'arte. Ha nostalgia di qualcuno di loro?

«Erano tutti amici o artisti con cui ho condiviso un pezzetto di strada. Con me sono stati generosi, perché non avrei mai potuto acquistare opere di questo valore. Per quanto riguarda i rimpianti, mi mancano solo coloro con cui c'era affetto sincero; mi riferisco a Bruno Munari o a Lucio Fontana».

Be', lei è stato generoso con tutti e soprattutto con se stesso, la sua biografia sembra raccontare dieci vite anziché una. Se riavvolgesse il film di questi 104 anni rifarebbe tutto?

«Assolutamente sì. So che il mio eclettismo è stato anche criticato, ad esempio per il fatto di essere artista e nello stesso tempo docente e critico d'arte. Hanno ragione a criticarmi, ma confesso che mi sarebbe dispiaciuto troppo rinunciare a una sola delle mie vocazioni. Anzi, ce n'è una che reclama...».

Vale a dire?

«Avrei voluto diventare anche architetto. Del resto la mia grande passione è sempre stata l'arte moderna, e l'architettura ne è una grande espressione. Diciamo che ho dovuto accontentarmi di insegnare Estetica e dedicarmi ad un'attività culturale e pittorica. Se tornassi indietro, chissà...».

A proposito di architettura, il prossimo compleanno lo festeggerà con l'Expo che arriva nella sua Milano. Una grande occasione - anche estetica - oppure un'occasione mancata?...

«L'Expo è un evento positivo perché finalmente ha smosso le acque in una città rimasta troppo a lungo seduta nel campo dell'architettura. Finalmente Milano avrà una vera “city” come tutte le grandi metropoli internazionali, mi riferisco all'area delle ex Varesine. Mi piace molto meno quello che hanno combinato nell'area dell'ex fiera...».

Be', lì c'è di mezzo l'archistar Daniel Libeskind, non la convince?

«Libeskind è un grande architetto, ma l'esterofilia a volte è dannosa, soprattutto per una città che ha sempre vantato architetti d'avanguardia, sottovalutandoli. A parte casi come quelli di Gio Ponti, Franco Albini o Studio Bpr, Milano non è stata capace di sfruttare talenti che all'estero ci invidiavano. E il risultato è che, se ci guardiamo in giro, i grandi esempi di architettura moderna si contano su una mano...».

Non teme che l'area di Expo, dopo il 2015, diventi l'ennesima cattedrale nel deserto?

«Molto dipende da quale sarà il piano urbanistico, un punto dolente per questa città. Devo dire che anche nell'area di Porta Nuova è mancato finora un vero piano urbanistico; belli gli edifici, ma scarsa la viabilità. Per non parlare del verde, che i cittadini gradirebbero fosse orizzontale più che... verticale».

Tutte le amministrazioni, del resto, piangono per le casse vuote. C'è la crisi, che ne pensa?

«Penso che in fondo sia una baggianata. Tutte le epoche hanno avuto le loro crisi; ma le crisi sono sempre utili perché spingono a cambiare certe consuetudini. E questa civiltà ha bisogno di cambiare».

Già, nei suoi libri «Horror pleni, la (in)civiltà del rumore» e «Irritazioni, un'analisi del costume contemporaneo» accusa i difetti di una società bulimica...

«Sì, perché nella nostra civiltà c'è un eccesso di tutto: troppe informazioni, troppe immagini, troppi rumori, troppi libri, troppo consumismo. Tutto questo alla fine uccide la bellezza. Per sconfiggere l'horror pleni, servirebbe una bella pausa».

Una civiltà anche afflitta dal cattivo gusto; è stato lei a introdurre nella lingua italiana per la prima volta il termine «kitsch»...

«Il kitsch è un concetto che pervade l'arte, gli oggetti e il nostro vivere quotidiano. Non dico che sia sparita la bellezza ma di certo è cambiato il gusto appiattendosi verso il basso. Se guardiamo ad altre epoche, come il Rinascimento o il Barocco, il gusto aveva dei canoni molto precisi e rigorosi».

L'Italia, con i suoi scandali e la sua corruzione, è diventata un modello di cattivo gusto?

«Forse stupirò qualcuno ma, nonostante tutto, non penso che l'Italia sia così male come siamo abituati a dire. Avendo avuto la fortuna di viaggiare molto in Europa e nelle Americhe, ho constatato che esistono Paesi che hanno molti più difetti di noi. Essere l'Olanda o la Norvegia, così piccoli e ricchi, è facile...».

Noi, invece, diventeremo un Paese popolato da immigrati. Oppure no?

«Anche su questo tema vedo molto populismo. La storia ci insegna che le mescolanze sono sempre un fatto positivo purché, chiaramente, si creino le condizioni per una vera integrazione».

E di Milano cosa pensa davvero, lei che è un triestino cittadino del mondo?

«Sarò sincero, più di Milano adoro altre città come Torino e Roma, oppure la Toscana dove mi rifugio volentieri avendo una piccola casa nel Volterrano. Però non lascerei mai Milano che reputo la città italiana più viva culturalmente e con la società più democratica».

In Toscana ci va anche per dipingere. Negli ultimi anni la sua figura come pittore viene finalmente sottolineata e le mostre si susseguono ovunque. È contento?

«Continuo a dipingere perché mi illudo di portare avanti un percorso artistico che rappresenta solo me stesso. Saranno i posteri a giudicare se quello che ho fatto vale qualcosa. Dei giudizi e delle critiche dei contemporanei non mi accontento. E non mi fido».

In che senso? Detto da un critico...

«Il giudizio dei contemporanei non è mai pulito perché subentrano facilmente fattori come l'invidia, la gelosia o la piaggeria. O l'eccessivo affetto».

Lei ha scritto un'infinità di libri. È più attratto dalla scrittura o dalla pittura?

«È vero che ho scritto tanto, ma non ho la pretesa di affermare che le mie opere abbiano alcun valore di carattere letterario. I libri che ho pubblicato sono i testi didattici di un professore universitario. Non ho mai scritto neanche un romanzo...».

Ma poesie sì, persino Montale la stimava. Proprio lo scorso anno è stata pubblicata una raccolta di suoi versi dal 1941 al 1952 edita da Campanotto.

«Ho deciso di pubblicare le uniche poesie che abbia mai scritto e a cui sono affezionato anche perché furono apprezzate da pochi intellettuali amici, come il mio conterraneo Francesco Saba. Ma mi fermai subito perché era impari il confronto con i grandi poeti di allora: Ungaretti, Stuparich, Debenedetti, Ferrero, Svevo, e ovviamente, Montale e Saba».

È vero che è stato insignito dell'Ambrogino d'oro ma non l'ha mai ritirato?

«È vero».

Perché?

«Perché tutti questi premi, queste targhe, sono completamente inutili e finiscono in cantina. Mai che abbia ricevuto, chessò, un bel premio in denaro che certo mi avrebbe fatto più comodo. Oppure, tutt'al più, delle bottiglie di buon vino. Lo sa qual è il premio che ricordo con più piacere?».

Quale?...

«Il premio Masi ricevuto a San Giorgio di Valpolicella come miglior veneto del 2005: una botticella di squisito amarone...

».

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