Cultura e Spettacoli

Saggistica

Come tutti sappiamo, nella storia ci sono vinti e vincitori. Chi vince impone le proprie ragioni e modifica a proprio vantaggio il corso degli avvenimenti. Non sempre le ragioni dei vincitori sono le ragioni del giusto, ma ciò non toglie che, in generale, il mondo proceda in questo modo. Può accadere poi di riconoscere, successivamente, che i vinti avessero ragione e i vincitori torto. Nella storia italiana dell’ultimo sessantennio possiamo individuare un esempio classico di questo paradigma nella discussione storiografica seguita al passaggio dal centrismo al centrosinistra, vale a dire in quella transizione che vede a livello governativo i socialisti prendere il posto dei liberali. È questo un momento fondamentale perché coincide con il focus della svolta modernizzatrice avvenuta tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, precisamente nel quinquennio del miracolo economico, 1958-63. Le ragioni dei vincitori, cioè di coloro che furono a favore della svolta a sinistra, non appaiono oggi infatti più così indubitabili: sottoposte a un vaglio critico, presentano molte crepe e interrogativi.
Il libro di Giovanni Orsina (su cui molto si è scritto perché in un primo momento proposto al Mulino, che però decise di non pubblicarlo) L’alternativa liberale. Malagodi e l’opposizione al centrosinistra (Marsilio, pagg. 222, euro 22), rientra nell’ambito di questa discussione, nel senso che l’autore intende dimostrare che tale svolta non era necessaria, e che tantomeno si è rivelata giusta. Confuta la convinzione di molti protagonisti del tempo, Fanfani, Moro, Rumor, Saragat, Nenni, La Malfa, i quali ritenevano, sia pure con intenti diversi, che fosse giunto il momento di spostare a sinistra l’asse della politica italiana; uno spostamento che avrebbe dovuto configurarsi come un’adeguata risposta ai mutamenti in atto in Italia e nel mondo. Analogamente Orsina critica l’opinione di alcuni studiosi che hanno giudicato questo passaggio una scelta obbligata dalla storia.
In Italia l’industrializzazione aveva innescato una grande trasformazione sociale, per cui vi era stata l’emigrazione dal Sud al Nord e l’urbanizzazione di grandi masse popolari, specialmente contadine; nel mondo si assisteva al superamento della guerra fredda, con l’abbandono della contrapposizione fra comunismo e anticomunismo: Kennedy, Kruscev e Giovanni XXIII sembravano rappresentare simbolicamente, in qualche modo, tale cambiamento. In Italia i promotori dell’apertura a sinistra - che facevano capo alle correnti di sinistra della Dc, del Pri e Psdi - affermavano che bisognava favorire una scelta progressista, volta a coinvolgere politicamente una parte delle classi subalterne, allargando il perimetro dello Stato democratico. E ciò sarebbe stato possibile solo se fossero stati coinvolti i socialisti nella responsabilità di governo. Dopo il governo Tambroni e i fatti drammatici del luglio 1960, non esisteva più alcuna possibilità di dar vita a formazioni governative di centro sostenute da forze di destra.
In realtà, come dimostra Orsina, il centrosinistra non può essere considerato un evento ineluttabile, ma deve essere visto come l’esito di una decisione scaturita da propensione ideologiche ben precise, ravvisabili nei democristiani di sinistra - soprattutto Moro e Fanfani - i quali agirono secondo valutazioni storiche e politiche che oggi risultano assai discutibili e prive, comunque, di vera fondazione oggettiva: alla Camera e al Senato vi erano ancora i numeri per sostenere governi centristi. Del resto, all’interno della stessa Dc, basti pensare ad Antonio Segni, presidente della Repubblica, le resistenze verso questa apertura erano piuttosto consistenti. Orsina, pertanto, fa proprie - sia pur criticamente - le ragioni di chi allora si oppose con più forza e lucidità allo spostamento a sinistra, vale a dire Giovanni Malagodi. Proveniente dalla Banca commerciale italiana, dove aveva percorso una brillante carriera, ricoprendo incarichi di grande responsabilità non solo in Italia ma anche all’estero, Malagodi aveva una specifica preparazione tecnica nel campo economico, e una visione internazionale nel campo politico.
Il segretario del Pli, partendo dalla giusta considerazione che la vera contrapposizione non è fra progressisti e conservatori, ma fra totalitari e liberaldemocratici, denunciò fin da subito i guasti che sarebbero scaturiti da un’accentuata statalizzazione dell’economia, la quale prevedeva la nazionalizzazione delle industrie elettriche, una forte programmazione economica e, inizialmente - ma poi fu molto ridimensionata - anche una riforma urbanistica volta a nazionalizzare molti suoli edificabili. A fronte di questi progetti profetizzò una catastrofe che, in buona parte, fu smentita dai fatti (comunque l’economia non ebbe più lo slancio del decennio precedente). Non sbagliò però su altre fondamentali questioni, come quella relativa all’invadenza dello Stato nella vita economica, che comportò un mostruoso sperpero di denaro pubblico e l’affermarsi della partitocrazia, e dunque l’inevitabile corruzione dovuta all’intreccio perverso fra potere politico e potere economico: cosa fu infatti, alla fin fine, Tangentopoli, se non l’esito malefico di questa scelta?
Il Psi e la Dc si ritrovarono potenziate da una congiuntura che fece emergere le loro anime statalistiche e corporative, come fu costretto a riconoscere un decennio più tardi lo stesso La Malfa, uno dei padri del centrosinistra, quando affermò che l’apertura a sinistra aveva rappresentato un «catastrofico ingigantimento dei peggiori vizi della vita politica ed economica italiana».
Uno dei vincitori aveva dato ragione a chi aveva perso.

Troppo tardi, però.

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