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D'Artagnan, il testamento di un mondo perduto

Nel "Conte di Bragelonne" spiega al figlio di Athos la Francia che lo attende. Diversa dalla precedente

D'Artagnan, il testamento di un mondo perduto

La lezione di d'Artagnan (Donzelli, pagg. 480, euro 35, traduzione di Lila Grieco) si intitola il primo volume, rilegato, del romanzo di Alexandre Dumas meglio noto come Il visconte di Bragelonne, terzo e ultimo del cosiddetto ciclo dei moschettieri. La scelta non è arbitraria e rimanda a un capitolo, il cinquantaduesimo per l'esattezza, che appunto porta quel titolo, in cui l'antico luogotenente del re, che ha momentaneamente lasciato il servizio e si è messo, con profitto, in proprio, spiega al giovane Raoul de Bragelonne, il figlio di Athos, ovvero del conte de la Fère, suo amico per la vita, insieme con Porthos e Aramis, la Francia che lo attende: «Che regno, mio povero Raoul, che regno! Quando si pensa che, al mio tempo, si assediavano i moschettieri nelle case, come Ettore e Priamo nella città di Troia; e allora le donne piangevano, e allora le muraglie urlavano, e allora cinquecento cretini battevano le mani e gridavano: Ammazza! Amazza! sino a quando non si trattava di moschettieri. Perdio! Non le vedrete queste cose, voi altri!».

Ciò che d'Artagnan rimpiange non è tanto o solo la sua giovinezza, ma la scomparsa di ciò che la rendeva esaltante: «Le coscienze non distillavano, come oggi, il veleno e la mirra», si era gente d'armi, non gente di corte, insomma... Lì dove c'era la cappa e c'era la spada, adesso ci sono l'intrigo e il tradimento, lì dove il dono era gratuito, adesso si è fatto moderno e calcolatore, una nuova generazione è arrivata al potere, per la quale il passato non significa più niente: «Tutto respirava l'avvenire». È il suo passato che d'Artagnan difende, nella consapevolezza che quell'avvenire non fa per lui.

«Volete degli amici o dei valletti?» dice al giovane Luigi XIV, il sovrano che farà della reggia di Versailles la gabbia dorata dove l'aristocrazia baratta la propria dignità in cambio del favore regale: «Sire, scegliete! Volete degli amici o dei servi? Dei soldati o dei ballerini che fanno la riverenza? Dei grandi uomini o dei pulcinella? Volete che vi si serva o volete che vi si inchini? Volete che vi si ami o che si abbia paura di voi? Se preferite la bassezza, l'intrigo, la codardia, oh! ditelo, Sire: noi ce ne andremo, noi altri che siamo gli unici rimasti, dirò meglio, i soli esempi del valore d'un tempo. Scegliete, Sire, e affrettatevi. Ciò che vi rimane dei grandi signori, servatelo, di cortigiani ne avrete sempre a sufficienza».

È un'epopea, Il visconte di Bragelonne, nella immensità del romanzo come nella varietà del suo stile, l'epopea degli ultimi giganti di Francia e insieme la commedia umana di un regno in cui il re Sole arriva sì al suo massimo splendore, ma non prepara la consacrazione di una dinastia, bensì la sua inarrestabile caduta.

Ha sempre nuociuto al Visconte di Bragelonne l'essere il romanzo conclusivo di quel ciclo all'inizio citato, ma per dimensione, spessore e intenti, in realtà di quello stesso ciclo è il compendio e insieme la realizzazione più matura: lo integra e insieme lo supera, una cavalcata superba e selvaggia nel nome della memoria, nella consapevolezza del tempo che passa, delle generazioni che si susseguono, dei tipi umani che scompaiono: «Non si affretta né si trattiene la marcia della storia. La si segue».

A torto e troppo a lungo considerato un autore di romanzi storici, se non addirittura uno scrittore per ragazzi, il che almeno vorrebbe dire che un tempo i ragazzi leggevano, e leggevano bene, ci si era dimenticati di quale grande artista Alexandre Dumas fosse e l'ingresso, con tanto di cofanetto, nella Pléiade Gallimard, la più classica delle collane dei classici, dell'intero ciclo, per il totale vertiginoso di quasi 4mila pagine (Les Mousquetaires, trilogie, a cura di Gilbert Sigaux per i primi due romanzi, Les Trois Mousquetaires e Vingt ans après, di Jean-Yves Tadié per Le viconte de Bragelonne, 145 euro), è il riconoscimento, tardivo e però definitivo, della sua riconosciuta grandezza.

Rispetto ai romanzi che lo precedono, Il visconte di Bragelonne inserisce un elemento di novità: non è più un eroe il suo protagonista, ma uno sconfitto, non sul campo di battaglia, ma in quello dei sentimenti che ne ha preso il posto, «uno di quei perdenti - osserva Tadié - ai quali, da Flaubert a Kafka, da Fitzgerald a Sartre, a Camus, si consacra il romanzo moderno». Raoul de Bragelonne non è infatti all'altezza del padre, che è sopravvissuto al tradimento di Milady come d'Artagan all'avvelenamento di Mme Bonacieux. La sua morte, «significa la fine dei valori sino ad allora incarnati: poiché lo stesso re non rispetta più la parola data, l'onore altrui, e non si lotta più, come ai tempi della Fronda, contro il re, non resta altro che morire. Ci sarà sempre, e in gran numero, chi si presterà ai giochi di corte e all'ammaestramento».

È probabile che avesse ragione Proust a dire che Dumas non avesse «un'immaginazione inventiva, ma combinatoria»: gli schemi su cui la trilogia dei moschettieri viene costruita sono in fondo sempre gli stessi: un viaggio avventuroso in Inghilterra, un soggiorno in prigione, gli intrighi ministeriali, i rapimenti, gli assedi, i duelli, i passaggi segreti... E però quanta invenzione in quella combinazione di avvenimenti che ogni volta Dumas mette in movimento, come facendoli uscire dalla boîte à surprise, dalla scatola di sorprese che li contiene. Apparteneva, Dumas, a una generazione di storici a cui erano ancora ignoti gli archivi, ma non la memorialistica, e assemblava quest'ultima come un regista che monta il proprio film e quindi mostra il paesaggio, fa parlare i suoi attori protagonisti. Rispetto a Balzac, rispetto a Stendhal, che usano i personaggi storici realmente esistiti come semplici elementi di sfondo, Dumas li mette in primo piano e li fa agire: Richelieu, Mazzarino, Anna d'Austria. Luigi XIV... Nel Visconte di Bragelonne, va addirittura oltre, con quella Maschera di ferro che, se ha scarsa fondatezza storica, si impone però per la sua forza archetipa: i gemelli e il tema del doppio, il re nascosto, il sovrano destinato a riapparire, il sole minacciato dalle tenebre... Nella storia, si sa, il mito conta quanto e più del reale.

Spira, per tutto il romanzo, un grande vento di libertà: «Niente più muri né a destra né a sinistra; il cielo dappertutto, la libertà dappertutto, la vita dappertutto». E spira anche un grande vento di malinconia, perché è un libro assolutamente personale che riflette le amarezze del suo autore: processi, fallimenti economici, delusioni politiche... «Vorrei essere per il lettore qualcosa di meglio di un narratore di cui ciascuno si crea un'immagine allo specchio della propria fantasia. Vorrei divenire un essere vivente, palpabile, mischiato alla vita, qualcosa, infine, come un amico. Così, morirei di meno, credo: la tomba mi accoglierebbe da morto, ma i miei libri mi manterrebbero vivo».

Il visconte di Bragelonne è l'epitaffio della sua vita immortale di scrittore.

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