Politica

La debolezza nemica di Israele

Poche immagini, poche battute di un dibattito mandato in onda dalla tv palestinese, e i cittadini israeliani che guardavano martedì sera la tv sono rimasti senza parole. Da una parte il portavoce di Hamas, Ramzi Hamed, dall’altra Jibril Rajoub, un duro, ex capo della sicurezza nazionale, Fatah fino alla cima dei capelli.
Riconoscere o non riconoscere Israele? Ramzi è nettissimo: il regime sionista deve solo essere distrutto, si può, al più, fare una tregua di cinque anni e poi riprendere la guerra totale. Ed ecco Jibril Rajoub che, sorpresa, non chiede di riconoscere Israele: chiede di prenderla meno di petto, swhaie swhaie, piano piano. Bisogna guadagnare tempo e territorio, tanto Israele è già defunto. «Prima Ramallah, poi Gerusalemme est, poi tutta Gerusalemme, poi Haifa e Acco... È solo questione di tempo, la nostra tecnica è più conveniente, abbiate pazienza». E questa, dice giustamente, è oggi la tesi più di moda in Medio Oriente.
Il presidente iraniano Ahmadinejad ha inventato così tanti modi di dichiarare Israele già defunto; gli hezbollah e la Siria non gli sono secondi. Tutti sono uniti da pratici patti di collaborazione stretti a Damasco o a Teheran, firmati dalle parti a partire dall’agosto scorso; i patti si occupano dei temi più svariati, dall’educazione islamista a patti militari di reciproco impegno senza precedenti, come quello fra Siria e Iran.
Al Qaida ha il suo piano, venti anni in sette stadi per creare la patria della guerra islamica in Medio Oriente: il califfato generale sarà stabilito già nel 2013 con l’aiuto della Cina. In Qatar dal 22 al 24 dicembre si è svolto la sesta conferenza islamo-arabo nazionalista, di cui uno degli organizzatori principali è stato Yusuf Qaradaqi, un clerico egiziano che vive in Qatar e che è forse il numero uno dei Fratelli Mussulmani. È un teorico notevole, perché ha intuito che la strada delle elezioni era vincente per l’islamismo; alla conferenza erano presenti dirigenti di hamas e degli hezbollah, un altro asse strategico completo per questo nuovo campo nazional-islamista, con molte benedizioni degli intellettuali e giornalisti. Anche i loro piani sono di conquista, in una parola, di guerra.
Ovunque si volga lo sguardo, si vedono non solo parole ma un accumulo intensivo di armi, con Ahmadinejad che prepara le strutture atomiche, Hezbollah che sfida la democrazia libanese, e risistema tutti i missili nuovi ricevuti su camion siriani (secondo informazioni dei servizi israeliani) dall’Iran, Hamas che ha collezionato una quantità di armi senza precedenti importata tramite la via di Filadelfia, il confine fra Gaza e l’Egitto, con l’aiuto dei compagni, soprattutto Hezbollah e i loro referenti.
La colomba della pace poveretta dunque, si aggira fradicia nel cielo mediorientale senza sapere dove posare le piume. Eppure, bisogna accendere un canale supplementare della nostra mente: quello delle trattative, degli incontri della pace. Se torniamo al mondo israeliano, nello stesso giorno in cui il cittadino di Tel Aviv o Gerusalemme si grattava la testa per cercare di capire se, infine, c’è una differenza fra Fatah e Hamas, la sua perplessità era già stata esercitata dai baci letteralmente travolgenti che Ehud Olmert aveva dato a Abu Mazen la sera di sabato incontrandolo per la prima volta durante il suo mandato: a cena gli aveva promesso la liberazione di decine, forse centinaia di prigionieri, la rimozione di 27 posti di blocco, 100 milioni di dollari, aiuti pratici per organizzarsi e anche per armarsi.
La volontà di provarci è seria, e può sembrare persino un po’ disperata. Dopo che martedì un missile kassam ha ridotto due ragazzi di Sderot in fin di vita, Olmert ha confermato la prosecuzione del cessate il fuoco, non potendosi tuttavia esimere dal promettere alle famiglie disperate della cittadina che ormai vivono nell’incubo di perseguire chiunque cerchi di sparare i kassam. Sembra un tentativo di guadagnare tempo a favore del consolidamento eventuale di Abu Mazen, incrociando le dita che non la pensi come Jibril Rajoub; o, semplicemente, una campagna per mostrare che Israele resiste quanto può nell’idea della pace. Mentre sa che prima o poi sarà costretta alla guerra.
Anche con il presidente siriano Bashar Assad che dice di voler parlare con Israele, la linea della «democrazia della disperazione» sta prendendo un po’ di spazio. I servizi segreti dell’esercito dicono che è ben intenzionato, il Mossad dice di non sbilanciarsi. Se Assad volesse lanciare un segnale, potrebbe semplicemente segnalare che non gradisce di esser l’ospite preferito di qualsiasi organizzazione terrorista voglia risiedere a Damasco, da Hamas alla Jihad Islamica agli hezbollah. Ma non lo fa, perché un’apertura di credito israeliana lo sfilerebbe momentaneamente dall’asse del male su cui Assad rischia il potere della casata. Questo mostra che alla fine sarà troppo difficile per Assad staccarsi dall’Iran e dal resto della compagnia. Eppure Tzipi Livni, la ministra degli Esteri israeliana, ha cominciato a sussurrare che bisogna verificare senza troppo rumore.
È una scena nebbiosa e un po’ patetica quella della mobilitazione occidentale per salvare la colomba intirizzita, o per fingere che stia benino: le espressioni di soddisfazione per l’accordo aggiunto all’Onu sulla risoluzione del consiglio di sicurezza del 23 dicembre per sanzioni all’Iran sotto la pressione massiccia del rischio di una defezione russa, riguardano in realtà il parto di un topolino di fronte alla montagna del pericolo nucleare. Il consesso internazionale alla fine congela i beni di qualche compagnia coinvolta ed «esercita vigilanza» su 12 membri del programma nucleare quando saranno in viaggio! Possiamo considerare questa una vittoria almeno morale, un segno di unità? Appare di più come il simulacro di un potere di imporre la pace ormai andato perduto nello scontro con la dura volontà estremista. Il guaio è che dai tentativi di pace mal riusciti, il Medio Oriente ne sa qualcosa, nasce sempre la guerra. Oggi, l’appeacement israeliano che non risponde ai missili, può creare una situazione in cui la sensazione che Israele sia debole travolga anche Abu Mazen.

In generale, la debolezza dell’Occidente, può distruggere ogni possibilità per l’Islam moderato di prendere il potere.

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