Cultura e Spettacoli

DINASTIE Bentivoglio, una storia cancellata

Splendidi signori rinascimentali arricchirono Bologna di opere d’arte

Nell’agosto del 1488 il pittore ferrarese Lorenzo Costa firmò la grande tempera su tela rappresentante l’intera famiglia di Giovanni II Bentivoglio ai piedi della Vergine in trono, per la cappella di famiglia nella chiesa di San Giacomo. Sette sono le ragazze a sinistra, quattro i maschi a destra. Ginevra Sforza, moglie di Giovanni e figlia di Alessandro Sforza, ha giunte le mani in preghiera, il marito un volto ombrato dalla barba e gli occhi sfuggenti, quasi osservasse l’operato del pittore. Belle, compunte, esili entro i loro profili appena disegnati, le fanciulle hanno sguardi profondi e concentrati, nessun sorriso. Come i fratelli, di fronte. Sembrano prevedere quello che, nel giro di neppure vent’anni, seppellirà la loro famiglia, la corte, il palazzo, cercando in ogni modo di «spegnere totalmente» ogni memoria della famiglia.
Fra vicende alterne e in lotta costante col potere papale, i Bentivoglio furono signori di Bologna dal 1402 al 1512. La loro fu la sola corte che abbia governato la città, dandole un rinascimento ricco d’arte, di libri, palazzi, dipinti, ospiti illustri. La signoria di Giovanni II coincise con l’introduzione in Italia della stampa a caratteri mobili, fatto che incrementò la produzione libraria della città che fin dal medioevo e grazie all’università, era uno dei maggiori centri librari d'Italia.
La leggenda narra che la famiglia discendeva dal figlio naturale di re Enzo (il celebre figlio di Federico II morto imprigionato a Bologna secoli prima) e di una contadina di nome Lucia, a cui il re soleva ripetere «amor mio, ben ti voglio». La storia tramanda ombre e luci di una dinastia che cercò di raggiungere una sorta di neutralità politica in equilibrio tra i diversi poteri cercando di farsi benvolere in modi diversi: Sante Bentivoglio in persona disegnò il grandioso sistema di fognatura della città, Giovanni II s’impegnò in una politica annonaria che mitigasse alla popolazione gli effetti delle terribili carestie di quegli anni. Crollò una antica torre: Giovanni II accorse tra i primi, come un moderno premier, a porgere aiuto; stanziò denari per dotare di fondi i sopravvissuti.
Si diceva che i Bentivoglio avessero trasformato Bologna da città «di legno e di paglia» in una «di pietra e mattoni». Vennero chiamati artisti da fuori, s’intensificarono gli scambi con le altre corti, la cultura dell’Umanesimo prosperava. Per questo, la furia con la quale i bolognesi distrussero il palazzo di famiglia, a seguito dell’ennesima occupazione papale della città avvenuta nel 1506, è un gesto ancora oggi arduo da comprendere. La Domus Aurea di Strada San Donato, eretta in «stile fiorentino« e affrescata con «nobillissime storie» dai primi artisti della città, Francesco Francia e Lorenzo Costa, fu abbattuta fin dalle fondamenta, al punto che al suo posto si ammucchiò una collinetta di detriti, che da allora si chiamò il Guasto.
In realtà in Bologna i Bentivoglio qualche nemico se l’erano fatto. Soprattutto nella famiglia Marescotti, il cui prestigioso capo, Agamennone, nutriva l’ambizione di sottrarre il potere a Giovanni II. La strage dei Marescotti è stato probabilmente uno dei motivi (o almeno il pretesto), per cui i bolognesi aprirono le porte al papa, quando Giulio II si presentò sotto le mura della città per riconquistarla allo stato della Chiesa.
Una mostra di ritratti e cimeli diversi, dalle armi alle monete, dai libri ai documenti originali, ripercorre, a cinque secoli esatti dalla cacciata dei Bentivoglio da Bologna, la loro storia (Fondazione del Monte, Museo medievale e Archiginnasio, fino al 7 gennaio, catalogo Minerva). Poche sono le vestigia rimaste dalla crudelissima damnatio. Ancora venticinque anni dopo la cacciata, lo storico Giovanni Rinieri racconta che un venditore ambulante fu trovato con alcune maioliche che recavano lo stemma della famiglia. «Scodelle e taze» furono prese e gettate dalla finestra del Palazzo del Comune, ma questo parve alla gente che osservava una «chossa malefatta».

I bolognesi si erano già stancati anche del Papa.

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