Politica

Disneyland di guerra nel deserto

da Tzelim,

deserto del Negev

Un miraggio tremolante nella prima luce dell’alba: case, moschee, alti edifici e il basso profilo di una casbah. Color ocra e bianco sul giallo del deserto. Una musica araba esce dagli altoparlanti, la memoria evoca scene di battaglia, agguati. Ma la città non è vera, è vuota e schematica, anche se grande e supertecnologica. Reale e astratta allo stesso tempo nel bel mezzo del deserto del Negev, presso la base militare di Tzelim. È tutta percorsa da fibre ottiche e da cavi sotterranei, punteggiata da sofisticati congegni celati ogni pochi metri. Questa città, ancora non completata, è la struttura in cui l’esercito israeliano, ferito dalla guerra del Libano, criticato da ogni parte e determinato a rinverdire il suo mito, si mette alla prova.
Quattro minareti di altrettante moschee, edifici, piazze, il campo profughi, i negozi, i garage sotto le case, a volte moderne e a volte piccoli cubi con una terrazza piatta sul tetto. «Una Disneyland di guerra che non ha pari nel mondo», spiega Arik Morè, il giovane comandante della base. Ogni settimana si esercitano non meno di milleduecento soldati e, quando la parte tecnologica sarà completata, il numero crescerà. Lo scopo è migliorare l’efficienza dell’esercito partendo dall’analisi degli errori nella guerra libanese. E il primo errore era stato quello di non aver svolto esercitazioni regolari e di non aver condotto manovre integrate. Ora si cerca di rimediare, per essere pronti a tutto. Le strutture riproducono fedelmente vari tipi di centri abitati: da un parte Bint Jbel, la cittadina del sud del Libano costata tante perdite a Tsahal, dall’altra Gaza; e più in là ancora c’è Ramallah.
Viaggiamo di notte per raggiungere il sito, mentre alcuni elicotteri volteggiano nel cielo trasportando i soldati che hanno simulato evacuazioni di feriti e sgomberi. Il rombo dei velivoli riempie l’aria, alcuni carrarmati circondano la città. Una squadra si succede all’altra, riconosciamo il berretto rosso dei paracadutisti, quello viola dei Givati, quello color terra dei Golani, che ieri gongolavano perché il loro generale Gabi Ashkenazi sarà il nuovo capo di Stato Maggiore. Mentre sorge il sole, un gruppo di uomini si allontana, con gli M16 a tracolla, la divisa e la faccia coperte di polvere e sudore nonostante il freddo intenso della notte del deserto, e un altro arriva. Il telefonino e il caffè caldo, in bilico in un contenitore di metallo arrugginito, su una collinetta sono i re dell’intervallo. «Ciao mamma, tutto bene, non ti preoccupare, bello qui, non ti posso dire quello che facciamo, ora devo andare. Piantala con questa storia del freddo, ciao, saluta papà».
Un battaglione va, uno viene. Molte ragazze col mitra e la faccia mimetizzata, giocano la parte del nemico. Arik, dopo che ci siamo arrampicati su un minareto spiega: «450 costruzioni. Quei buchi irregolari che vedete nei muri rappresentano i passaggi che pratichiamo da edificio a edificio, li abbiamo fatti in anticipo per praticità. La città potrebbe avere circa cinquantamila abitanti. I civili è difficile simularli, ma riproduciamo la presenza non militare in tutte le sue capacità, dal terrorista al cittadino, dal giornalista al negoziante... In genere, mentre si esercitano seicento uomini delle forze blu, le nostre, se ne esercitano anche 350 delle forze rosse, il nemico». Arik spiega che ancora non è tutto pronto, ma che ogni stanza della cittadina sarà dotata di una telecamera, così da consentire la rilettura di ogni azione.
Alcuni soldati che si avviano verso una casa in cui è stato identificato un terrorista. Corrono verso la collinetta, sfondano la porta ed entrano sparando, il fumo intenso impedisce di vedere bene. Il terrorista si rifugia al piano superiore, si accende una battaglia alla fine della quale i soldati blu hanno un ferito e sono riusciti a catturare il ricercato. È uno scontro che trascina nel caos della guerra, con assalti, spari, ordini continui e precisi urlati da ogni parte. Ogni gesto è ripreso dalle telecamere: più tardi si saprà quali errori e quali azioni corrette hanno compiuto i militari.
«Presto quasi ciascun soldato sarà munito di un congegno simile a un gps che sorveglierà ogni movimento. Si saprà da dove parte uno sparo, dove è diretto e che cosa ha causato...». Il generale Uzi Moskovitz, direttore del progetto, ci incontra sul campo sotto una tenda. «La base era progettata da otto anni e abbiamo cominciato a costruirla due anni fa. Ma dopo lo scontro con Hezbollah abbiamo deciso di accelerare e modificare il lavoro, e di dare il via a esercitazioni integrate che comprendano tutte quante le forze sul campo, compresa l’aviazione - spiega Moskovitz -. La dimensione, la somiglianza col campo reale, la possibilità di raccolta di dati e di analisi sono senza precedenti nel mondo. Presto avremo anche un software che ci consentirà di ruotare il progetto e di vederlo in trasparenza sullo schermo. Abbiamo incrementato il lavoro per correggere e risolvere i nostri problemi. In Libano, uno dei più seri riguardava proprio la mancanza di addestramento, di abitudine allo scontro...».
Arik da lontano fa vedere che le esercitazioni cominciano a due chilometri da qui. Il gruppo che arriva da lontano, deve infiltrarsi nella città, dove scattano diverse azioni contemporanee. Si simulano rapimenti, esplosioni, risposte ad attività terroristiche e alle armi anticarro, la distruzione dei missili Kassam. Alla fine, gli analisti valuteranno i risultati e daranno il loro giudizio.
Il generale è soddisfatto. Ma al di là dei problemi tecnici, non è forse la confusione che nasce dalla guerra asimmetrica, l’indecisione di ufficiali cresciuti nell’idea che «il problema non è militare ma politico», o che la pace sia dietro l’angolo, non è la mancanza di motivazione dei giovani e delle riserve il problema vero? «No! - risponde sonoramente il generale -. Per capire parli con loro. Discutono e criticano come si fa in democrazia? È giusto così. Ma poi, quando devono agire, niente più chiacchiere: sanno qual è il loro dovere, questi ragazzi, e ne sono contenti. Ne prenda uno a caso». Ne scelgo due: un sergente delle forze blu, Effi, con le labbra strette e la faccia stanca, che in Libano ha visto morire i suoi compagni. «Certo questa non è la realtà terribile dello scontro vero, ma è molto emozionante lo stesso impegnarsi a imparare cose nuove - racconta -. Nessuno è così pazzo da amare la guerra. Ma è bellissimo imparare ad aiutare te stesso mentre aiuti il tuo Paese». Rotem, una biondina di diciannove anni, delle forze rosse, racconta che ha sparato col laser e che è consapevole di non essere forte come i ragazzi, ma sa dare filo da torcere. Si sente fortunata di partecipare a queste esercitazioni. Le ragazze della sua età in Italia, o in America, studiano, ballano, fanno shopping... «Che discorsi, ognuno è nato nel proprio Paese e qui serve il mio aiuto.

E dà molta soddisfazione sentirsi utili».
Fiamma Nirenstein

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