Cronaca locale

«Dissi no a Strehler perché ero innamorata solo della letteratura»

Rosa Giannetta Alberoni apre la sua casa e si racconta: «Ripenso alla Milano della cultura dove ci si poteva confrontare con De Monticelli, la Montalcini, Sartori, Eco e Del Bo Boffino»

Enrico Groppali

La sua casa è all’insegna dello studio non disgiunto dall’indispensabile correttivo dell’allegria. Un enorme quadro che sembra un puzzle occupa un’intera parete e mostra, chi l’avrebbe mai detto?, i volti sorridenti di Alberoni e signora che si abbracciano gioiosi come due star sullo schermo gigante del Cinemascope mentre, di fronte, gli occhi socchiusi e il bel corpo mollemente adagiato sull’erba, ci accoglie la riproduzione di uno dei nudi più puri che esistano: la Venere del Giorgione.
Rosa Alberoni (del suo doppio cognome da ragazza, Giannetta Trevico, la signora preferisce non parlare) mi pilota verso la stanza dei segreti, l’angolo isolato riservato alla fatica quotidiana che a volte si chiama lettura, più spesso accanita verifica dei dati e naturalmente scrittura come forma di comunicazione privilegiata, se non addirittura osservatorio continuamente aperto sul mondo.
Lei, bionda, esile, quasi filiforme somiglia a una betulla scossa dal vento. Ma non lasciatevi ingannare: sotto questa apparenza di diafana creatura cechoviana, Rosa nasconde una volontà di ferro e un’autodisciplina da capitano d’industria che non tarda a rivelarsi fin dai primi movimenti del nostro incontro che, se vogliamo, somiglia a una sinfonia con tanto d’allegro iniziale dato che, senza tanti preamboli, le faccio subito la domanda di prammatica.
Chi accoglie, signora, in questo salotto? Anzi, mi scusi, in quest’aula illuminata dal sole ma consacrata allo studio?
«Ha detto bene: questa è davvero un’aula. Dove mi ritiro a pensare, a consultare, a divorare libri e a scriverne di nuovi. Non è, né sarà mai un salotto. Cosa glielo fa pensare?».
Prima di tutto, i grandi maîtres-à-penser che ha frequentato, sia sulla carta stampata che nella vita. Non mi dica che nessuno è mai passato di qui, non ci crederei mai...
«Le parrà strano, ma qui dentro io dialogo con Pareto, con Rousseau e spesso persino con Hegel. Presenze così vive e perentorie da meritare il nome che gli ho affibbiato, quello che spicca sulla copertina del saggio più ponderoso che abbia scritto: Gli esploratori del tempo. Solo loro hanno libero accesso in questa stanza che, se vogliamo, è il salotto dello spirito, il luogo della libera circolazione delle idee, l’habitat del confronto tra le intelligenze più stimolanti che siano mai esistite».
Non ne discuto, ma ci sono anche i vivi coi quali lei non smetterà certo di confrontarsi. Cosa mi dice della Fondazione Rizzoli, che oggi purtroppo non esiste più? Lei, mi dicono, era una presenza assidua... (Rosa fa un gran sospiro).
«È stato un periodo bellissimo, e sfortunatamente irripetibile. Per me che venivo da studi severi di fisica e matematica oltre che di letteratura, è stato un approccio fondamentale. Pensi che dal ’75 al ’79 la Fondazione, in collaborazione con la Rai, la Biennale di Venezia e il Mifed, fece proiettare in sede i telegiornali più rari del mondo. Persino quello della Repubblica Popolare Cinese dedicato ai funerali di Mao nei giorni in cui il mondo seguiva con trepidazione il processo della Banda dei Quattro. Quello sì, se vogliamo, era l’autentico Salon dei fratelli Goncourt in versione aggiornata ai tempi spasmodici e entusiasmanti che si vivevano ora per ora».
Chi ne faceva parte?
«Potevi discutere con la Levi Montalcini sullo sviluppo della scienza, con Eco sull’avvenire della semiologia, con De Monticelli sulla funzione del teatro. E poi confrontarti con Serena Foglia sull’astrologia e i mondi paralleli, con Carlo Sartori sul cinema americano, con la Del Bo Boffino sull’etica femminista. Ma è inutile guardare al passato, anche se non posso fare a meno di rimpiangere quella Milano che s’interrogava sul futuro della civiltà come sull’avvenire del civismo non perdendo mai di vista la dimensione fondamentale dell’essere: la cultura».
Come ha cominciato a muoversi Rosa Alberoni nell'industria del pensiero?
«Come Cincinnato, coltivando il mio orticello. Sono nata in Puglia, non ero ricca, avevo cinque fratelli e sono orgogliosa della mia origine contadina. Fino ai diciassette anni ho vissuto in campagna innestando le viti, guidando i trattori, dormendo dove capitava. A volte persino per terra, su un impermeabile spiegazzato, vinta dalla fatica. Non voglio fare della retorica, ma se non fossi arrivata a Milano temprata a quel modo dalla vita, forse non avrei combinato un bel nulla».
E poi cos’è accaduto? Sono tutto orecchi...
«Ho sempre voluto capire qual è il posto dell’uomo nel mondo. E per capire bisogna studiare, studiare e ancora studiare. Dio mio, quanto ho letto nella mia prima gioventù! Tanto da diventar cieca. Pensi che ho preso addirittura due maturità».
Come mai?
«Da privatista, non potevo accedere subito alla maturità classica. Così, per prima cosa, divenni maestra d’asilo. E solo nel ’68, frequentato l’Istituto Magistrale, mi misi in tasca quel benedetto pezzo di carta».
E da allora non si è più fermata. Mi dica, com’era Milano agli occhi di una ragazza del Sud?
«Quando arrivai qui, a Milano, non ebbi nemmeno il tempo di guardarmi attorno. Stavo in via Egadi, a casa di una signora, vedova di un generale, che non appariva mai come un fantasma di Henry James».
Cosa faceva tutto il giorno?
«Di mattina lavoravo, di pomeriggio in casa traducevo Orazio e leggevo Virgilio».
E di sera? Possibile che nessuno la invitasse a ballare?
«Per i corteggiatori non avevo tempo perché, dalle nove alle undici, andavo allo Iulm a studiare letteratura. Le discoteche, io, non sapevo nemmeno cosa fossero».
Ho saputo che, nel suo passato, c’è stato anche il teatro...
«Come no! Mi sono laureata su Bertolt Brecht e più tardi, con Alessandro Serpieri e Gabriele Lavia, ho partecipato a uno stage sull'Amleto. Era il periodo in cui andavo matta per Frances Yates e il Warburgh Institute che ha dato origine, come saprà, alla riqualificazione dell’Età Elisabettiana».
Come mai, dopo un inizio così promettente...
«Ho abbandonato il palcoscenico? A dire la verità, me lo chiedo ancora. Peggio di Strehler, che conoscevo benissimo, e me lo chiedeva sempre. Ma forse la risposta, ahinoi, è banale: mi ero innamorata della letteratura, e ho cominciato a scrivere romanzi».
È stata una vocazione improvvisa?
«Moravia diceva che narratori si nasce e scrittori si diventa. Io penso di aver sempre narrato, anche quando non fermavo le mie riflessioni sulla carta».
Da allora, a quanto mi risulta, non ha perso neanche un colpo. Passando senza colpo ferire da «Io voglio», un romanzo sull’epoca napoleonica, alla «Montagna di luce», la sua ultima fatica, che stranamente è dedicata a Padre Pio...
«Perché “stranamente”? Io sono credente ma, anche se non lo fossi, come si fa a rimanere indifferenti davanti allo Spirito che emana, persino in fotografia, da quegli occhi straordinari?».


Un’ultima domanda: cosa pensa del Buddismo?
«Mentre il nostro Credo partecipa del Sacro, il Buddismo non lo contempla. È solo un esercizio d’autocontrollo della psiche. Non ha nulla a che vedere con la preziosa esperienza di Padre Pio, che diventa testimonianza di fede».

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