Controcultura

Le due sorelle di Paola Drigo tenute in ostaggio dal patrigno-orco

Sarà che l'altitudine fa pensare al paradiso, ma è difficile immaginare l'inferno del degrado morale in montagna

Sarà che l'altitudine fa pensare al paradiso, ma è difficile immaginare l'inferno del degrado morale in montagna, magari in una di quelle valli alpine che attirano migliaia di turisti; eppure si tratta di posti dove la vita, fino a pochi decenni fa, era durissima. Posti dove, per fare un esempio riportato da Ettore Sottsass nella sua autobiografia, il cadavere di chi moriva d'inverno lo si metteva nella legnaia e ve lo si teneva per mesi, perché il terreno del cimitero era un solo pezzo di ghiaccio e scavare una fossa sarebbe stato impossibile, prima della primavera.

Anche la protagonista del romanzo di Paola Drigo (Maria Zef, minimumfax, pagg. 208, euro 14), una ragazza di quattordici anni dal carattere aperto, viene da una di quelle valli, dalla Carnia, ma la scrittrice ce la presenta mentre tenta di vendere mestoli, scodelle e altri oggetti di legno in pianura, in un piccolo e faticosissimo commercio con cui si sforza di non morire di fame. In grado di cantare le villotte che attirano le clienti, Maria tira il carretto come un cavallo, con una fascia di cuoio che deve essere ammorbidita con il grasso prima di essere passata sotto le ascelle. Accanto a lei è la madre, una donna precocemente invecchiata, cupa, anaffettiva; e la sorellina Rosùte, che cammina con difficoltà per via del piede malato. Inserire un personaggio in un contesto pubblico è usuale nella letteratura verista, alla quale per certi versi anche l'autrice appartiene; quello che la Drigo vi aggiunge è una sorta di terrorismo indiziario, una disseminazione di tracce grazie alle quali il lettore comincia a sospettare che dietro l'idillio si celi l'abiezione. Quando nel corso di uno di questi viaggi la madre muore, nelle osterie qualcuno commenta a mezza voce che la pleurite della donna aveva un'origine innominabile. Accolte provvisoriamente dalle suore, scandalizzate dalla loro estraneità al mondo «civile», Maria e Rosùte rischiano di essere adottate da una dama in vena di generosità, finché ogni prospettiva di distacco dalla montagna si dissolve con la comparsa di Barbe Zef, avvertito da un telegramma. «L'uomo venuto a ritirare le bambine, munito di una lettera del sindaco, aveva tutte le carte e i documenti in regola, che attestavano essere fratello del padre defunto delle ragazze, il parente più prossimo, avente dovere e diritto di tutela sulle minorenni». È l'inizio di un incubo: se abitare in una baita isolata, a tre ore di distanza dalla chiesa più vicina, è già difficile, sopravvivervi in compagnia di un uomo non irrimediabilmente corrotto, ma incline al bere e inaridito da un'esistenza raminga e fallimentare è impossibile.

Considerata la maggiore scrittrice veneta della prima metà del Novecento, Paola Drigo (1876-1828) collaborò con le principali riviste letterarie e scrisse sulla terza pagina del Corriere della Sera. Uscito nel 1936 e sempre ristampato, portato sullo schermo due volte, Maria Zef è il suo romanzo più noto. Tratta del tema dell'incesto con coraggio, sottolineandone l'orrore attraverso un simbolismo ossessivo e disturbante (la ceppaia desolata, il lugubre canto delle civette...).

Il colpo d'accetta che sigilla la vicenda non è vibrato per ordine di un contesto impersonale, né costituisce solo la tragica emancipazione di un'eroina protofemminista; è la reazione istintiva di difesa posta all'incrocio dei molti piani (psicologico, sociale, animale) che ogni essere umano è costretto a gestire, se vuole sottrarsi alle forze del male e della disperazione.

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