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E affiora la rabbia: «Fatti troppi errori»

Nel quartiere asiatico non si risparmiano critiche alle autorità: «Dovevano bloccare subito il metrò. E poi negli ospedali non si entra: come possiamo cercare i nostri familiari?»

Gaia Cesare

nostro inviato a Londra

La televisione è accesa da oltre cinquanta ore, notte e giorno, nella speranza di vedere scorrere fra le immagini quel volto, quei grandi occhi neri che da giovedì mattina sono scomparsi insieme alla serenità di questa famiglia. Whitmore Gardens n.70, nord ovest di Londra, un quartiere residenziale a maggioranza asiatica, modesto ma decoroso. In casa c’è un gran via vai. Amici, ma soprattutto parenti. «Tra noi è così, quando qualcuno è in pena, tutti vengono a portare un po’ di conforto, cercano di farti sentire meno solo», spiega Ruth Parathasangary, 63 anni, una signora minuta, che ora chiusa nel suo dolore sembra ancora più piccola.
Di sua figlia Shynugah, 31 anni, non si sa più nulla da quando giovedì mattina è uscita di casa per andare al lavoro, Old Street, sede di una delle agenzie della Royal Mail, il servizio postale britannico. «All’inizio abbiamo pensato che se la sarebbe cavata, mai avremmo immaginato che in quell’inferno ci potesse essere anche lei», racconta il padre. «Poi però è arrivata la chiamata dal lavoro: era già pomeriggio inoltrato, ci dicevano che Shynu non si era presentata». È stato in quel momento che in questa affiatata famiglia cingalese, simbolo dell’integrazione della Londra multietnica, del melting pot che è l’orgoglio della metropoli «capitale del mondo», è scoppiato il panico.
«I miei genitori hanno sottovalutato le cose, ma io da subito ho avuto uno strano presentimento». È Sindhe, la sorella della missing, la più lucida e la più arrabbiata della famiglia. A guardarla da vicino, la corporatura robusta, la pelle olivastra, sembra la gemella di Shynu – come la chiamano loro -. Identica a quella ragazza che sorridente troneggia nel salotto di casa, in una foto che la mostra orgogliosa mentre stringe il suo diploma di laurea.
È lei, la maggiore delle due sorelle, che anche in queste ore di angoscia e attesa non perde il controllo. Lucida e fredda, proprio come una vera inglese, si scalda solo quando lancia le sue pesanti accuse sulla gestione dell’emergenza. «È tutto sbagliato, dall’inizio alla fine. La prima bomba è scoppiata alle 8:50. Non m’importa sapere se la Metropolitan Police avesse capito che si trattava di un attentato, anche se sono certa che loro avessero già elementi per valutare. In ogni caso, nel dubbio, dovevano fermare completamente il traffico, impedire alla gente di salire sui bus e sulla metrò come invece è successo», spiega mentre in tv scorrono le immagini di decine di persone a caccia dei loro cari, appesi a una foto che potrebbe restare l’ultimo ricordo. «Poi è andata ancora peggio. Abbiamo chiamato tutti gli ospedali della zona, ma di Shynu nessuna traccia. Abbiamo provato a entrare in quegli ospedali, ma sembra che sia un privilegio concesso solo al principe Carlo e alla regina. Non ai parenti degli scomparsi. La linea di emergenza non ha funzionato per tutta la giornata. A tarda sera per noi c’era solo una voce che diceva di lasciare i nostri nomi e che saremmo semmai stati richiamati».
Sindhe non risparmia critiche a nessuno. Ma le sue parole sembrano calibrate e rafforzano il malumore che da più di due giorni dalla strage, ormai, serpeggia fra i parenti dei dispersi e delle vittime non ancora identificate, la sensazione di essere abbandonati al proprio destino, di non avere accesso alle informazioni, di non avere supporto per capire se c’è ancora un filo di speranza a cui appigliarsi. Dopo l’orrore, insomma, è anche il tempo di fare i conti con «il sistema», come lo definisce lei. «È impossibile che a oltre 36 ore dall’esplosione sul bus le autorità parlassero ancora di due soli morti. Ho letto e sentito i racconti dei sopravvissuti, dei testimoni: tutti parlavano di almeno una decina di corpi – aggiunge -. A noi cosa resta ora? Solo la speranza che qualcuno riconosca mia sorella da una foto».
E la speranza sembra affievolirsi di ora in ora in quest’accogliente casa fuori Londra. I cugini di Shynu – almeno sei, tutti giovani e svegli ragazzi figli dell’Inghilterra multirazziale – sono da oltre 24 ore sparpagliati fra King’s Cross e Tavistock Square, lungo il percorso battuto da Shinu quella dannata mattina del 7 luglio.


Da domani per Jonathan, questo papà tenero e orgoglioso delle sue ragazze, ricomincia la triste ricerca negli ospedali, nella speranza che su qualche letto d’ospedale, magari anche sotto choc, ci sia la sua Shynu.

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