Letteratura

Eça de Queirós e la decadenza del Portogallo

È un tomo lunghissimo, voluminoso, addirittura difficile da tenere in mano e aprire agevolmente

Eça de Queirós e la decadenza del Portogallo

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Eça de Queirós e la decadenza del Portogallo

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È un tomo lunghissimo, voluminoso, addirittura difficile da tenere in mano e aprire agevolmente. E, lo ammetto, da sempre mi accosto con una certa diffidenza a romanzi che superino le 400 pagine. Quello di cui vi parlo ne ha quasi 800, per giunta fittissime. Eppure, di rado mi è capitato di leggere qualcosa di altrettanto potente, in sapiente equilibrio tra sarcasmo e commozione, tra affresco storico e introspezione, quanto I Maia di José Maria Eça de Queirós, uno dei più illustri romanzieri lusitani, nato in Portogallo nel 1845 e morto a Parigi nel 1900.

Figlio illegittimo di un magistrato, ebbe il privilegio e la curiosità di girare il mondo, ottenendo una serie di incarichi in sedi diplomatiche del suo Paese all'estero, e poté così respirare il vento del cambiamento che soffiava in Europa sul finire del XIX secolo, anche grazie all'adesione al movimento Generazione del 70, un eterogeneo gruppo di intellettuali portoghesi attivi soprattutto in quel decennio e interessati a un rinnovamento del Paese all'insegna di realismo letterario e socialismo. Particolarmente intrigato dallo stile di vita inglese, che conobbe bene durante il suo mandato a Newcastle, si convinse che, per quanto in tale società non vi fosse nulla che realmente lo appagasse, quella britannica fosse probabilmente la nazione pensante per eccellenza. Una valutazione, questa, che traspare a più riprese dalle pagine de I Maia (Edizioni Settecolori, traduzione di Enrico Mandillo, pagg 785, euro 28), il suo romanzo più celebre. Torrenziale, analitico e, a tratti, impietoso, I Maia è lo specchio di una società, quella nobiliare lusitana, in forte decadenza economica ma soprattutto morale, schiacciata dal peso di un passato glorioso in rapida dissoluzione e dagli afflati libertari del nuovo che incombe.

Il vetusto Afonso de Maia ha un unico figlio, Pedro, che viene abbandonato dalla moglie, fuggita scandalosamente all'estero con un losco figuro. La donna si porta appresso la figlia e gli lascia l'incombenza dell'educazione del figlio, Carlos, una responsabilità troppo ingombrante, che finisce per spezzare irrimediabilmente l'equilibrio di per sé precario di Pedro. La stirpe dei Maia resta più che abbiente. Come dice il suo amministratore, «Possediamo ancora un tozzo di pane e quel tanto di burro da spalmarvi sopra». E Afonso de Maia non vacilla. Pur essendo uno degli ultimi rappresentanti di un mondo destinato all'oblio, Afonso è un uomo tutto d'un pezzo, amante delle arti e della vita e refrattario alle imposizioni. Il «fanatismo religioso che lo circondava andava producendo in Afonso un ateismo pieno di rancore: avrebbe voluto veder sprangare le chiese come i monasteri, le immagini sacre spezzate a colpi d'ascia in una carneficina di reverendi».

Questo è solo l'antefatto.

Nel dipanarsi della vicenda, ricca di spaccati della società del tempo, non mancano colpi di scena in grado di incollare il lettore alle pagine.

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