Politica

E ora Israele nella Ue

In Medio Oriente si prospetta in questi giorni l'ennesimo momento della verità. Nei territori palestinesi ieri mercoledì 25 gennaio si è votato per rinnovare il Parlamento dell'Autorità nazionale palestinese. In Israele, Ariel Sharon lotta ancora tra la vita e la morte, mentre la scorsa settimana il terrorismo è tornato a colpire dopo mesi di silenzio. Nel frattempo, a poche centinaia di chilometri, un presidente fanatico - l'iraniano Mahmoud Ahmadinejad - minaccia di «cancellare Israele dalla mappa» e porta il suo sostegno al terrorismo palestinese. La pacificazione e la stabilizzazione dell'intera regione dipenderanno da come ciascuna di queste situazioni evolverà anche con il contributo della Comunità internazionale.
Nell'immediato, i pericoli maggiori di uno sbandamento verso il caos e la violenza sono da individuare nei territori palestinesi. Le elezioni diranno chi tra il pragmatico presidente Mahmoud Abbas e l'organizzazione fondamentalista Hamas guiderà l'Autorità e quale direzione prenderanno i negoziati di pace con Israele. Basta leggere le piattaforme elettorali dei due principali partiti per comprendere la posta in gioco: se il Fatah di Abbas afferma che «la pace e i negoziati con Israele sono una scelta strategica», il movimento di resistenza islamico ritiene che «tutti i mezzi sono leciti per raggiungere l'obiettivo» di uno Stato palestinese. A partire dal terrorismo, strumento che - con l'eufemismo «lotta armata» - Hamas si è dato per realizzare uno dei punti della sua carta costitutiva: «Distruggere lo Stato sionista». Il disordine imperante nella Striscia di Gaza rende concreto il rischio di una guerra civile e solo una vittoria netta dei moderati palestinesi può garantire che il lento processo verso la pace, avviato con il ritiro unilaterale israeliano, sia irreversibile.
La volontà di Israele di proseguire sulla strada dell'istituzione di uno Stato palestinese è infatti, ad oggi, certa. Non a caso non vi è stata rappresaglia all'attentato della scorsa settimana alla stazione degli autobus di Tel Aviv. Il governo israeliano, nonostante il rischio di una vittoria di Hamas, ha anche acconsentito a far votare una parte della popolazione palestinese di Gerusalemme Est, perché è nel suo interesse che le elezioni nei territori siano un successo di democrazia ed esprima un Parlamento pienamente legittimo. Il governo di Ehud Olmert, infatti, si iscrive in piena continuità con Ariel Sharon. Ma dall'esito delle elezioni israeliane di marzo dipenderà il proseguimento della politica del pragmatismo. In tal senso, c'è da augurarsi che il partito fondato da Sharon, Kadyma, esca vincitore dalle elezioni israeliane di marzo. I risultati elettorali sono, tuttavia, quanto mai incerti. Se i sondaggi danno ancora in testa Kadyma, non è da escludere una situazione di ingovernabilità. Il Likud di Benjamin Netanyahu può garantire la mano pesante contro il terrorismo e un surplus di sicurezza, ma il suo progetto di Grande Israele non è compatibile né con la via del disimpegno unilaterale dal resto dei territori palestinesi né con la Road Map tracciata dalla Comunità internazionale. Il Labour di Amir Peretz è in piena crisi di identità e, soprattutto, troppo ancorato alla chimerica vecchia formula «territori in cambio di sicurezza» per rispondere alle esigenze poste dai cittadini israeliani. Inoltre, Israele subisce la più grave minaccia dell'ultimo ventennio: non il terrorismo palestinese, ma il terrorismo di Stato del presidente iraniano Ahmadinejad.
La volontà bellicosa del regime dei mullah è fuori discussione. Non è una coincidenza il fatto che l'ultimo attentato di Tel Aviv sia avvenuto in contemporanea con la visita di Ahmadinejad al suo omologo siriano, Bashar el-Assad. Le autorità israeliane dicono di avere le prove che l'attacco rivendicato dalla Jihad islamica sia il «risultato diretto dell'Asse del Terrore che opera tra Iran e Siria». Oggi le armi di Teheran e di Damasco sono i kamikaze che colpiscono decine di civili. Ma domani l'arma di Teheran potrebbe essere quella nucleare che stermina centinaia di migliaia di persone. Il pericolo non riguarda solamente Israele: secondo i servizi segreti tedeschi, i missili iraniani potrebbero arrivare perfino in Europa.
In questo contesto si nota l'assenza di quello che dovrebbe e vorrebbe essere uno dei player maggiori della regione, l'Unione europea. Vero è che l'Europa è massicciamente presente nei territori palestinesi, attraverso il finanziamento del processo elettorale e delle infrastrutture e l'assistenza tecnica all'Autorità. Ma manca un'iniziativa politica forte che possa rafforzare l'attuale presidente e la sua linea di dialogo e, al contempo, ridurre i danni di una possibile vittoria di Hamas alle elezioni di mercoledì. È indispensabile, per esempio, che l'Unione europea esiga il disarmo del movimento islamico, pena la cessazione degli aiuti economici.
Sul fronte israeliano, l'Europa è assente per colpe del passato recente. La sua politica smaccatamente filo-palestinese (e pro-Arafat) ha screditato l'Ue agli occhi del governo e dei cittadini israeliani. La coincidenza dell'allargamento europeo ai nuovi Paesi dell'Est - più attaccati al valore della democrazia e della libertà - e della morte di Arafat ha invertito questa tendenza e lentamente l'Ue può tornare a giocare un ruolo costruttivo nel processo di pace. Ma manca un salto politico, che possa rafforzare il percorso iniziato da Sharon con il ritiro da Gaza: offrire l'adesione di Israele all'Unione europea, anche per scongiurare il rischio di un ritorno alla politica del colpo su colpo che verrebbe a determinarsi dal ritorno al potere di un Likud troppo forte o da un Labour troppo debole. La teoria dei giochi insegna che la soluzione più razionale di un conflitto è quella cooperativa. In Medio Oriente, una soluzione cooperativa deve essere collocata all'interno di un processo di garanzie, che finora sono mancate quanto alla sicurezza di Israele. Estendere il territorio dell'Europa a Israele significa, invece, garantire la sicurezza che i cittadini israeliani reclamano.
I progetti nucleari dell'Iran mettono di nuovo a rischio l'esistenza stessa di Israele, oltre a minacciare la sicurezza del territorio europeo. Finora, l'Unione europea ha fallito nel suo tentativo di negoziare - attraverso la Troika formata da Francia, Regno Unito e Germania - una moratoria sull'arricchimento dell'uranio. La diplomazia del dialogo critico ha fatto perdere inutilmente due anni ed oggi si chiedono sanzioni da parte delle Nazioni Unite che difficilmente potranno essere adottate e, per quanto indispensabili, comunque saranno inefficaci. Cina e Russia minacciano un veto al Consiglio di Sicurezza, mentre l'esclusione del petrolio dall'ambito sanzionatorio significa che il regime di Ahmadinejad potrà continuare a sopravvivere senza temere serie ripercussioni. Per risolvere la crisi nucleare con l'Iran, l'Unione europea può e deve introdurre un surplus di politica, portando i suoi confini laddove la minaccia è più forte e concreta. Occorre far capire chiaramente all'Iran che attaccando Israele attacca l'Europa e che gli europei non tollereranno un fanatico fondamentalista in possesso dell'opzione nucleare. Anche con un'azione militare, se e quando la diplomazia fallirà.
L'Europa rappresenta un progetto politico che per vocazione diffonde stabilità e pace e i cui confini sono determinati innanzitutto dalla democrazia. Israele ne può e ne deve fare parte.

È giunto il momento che, con un atto unilaterale, l'Ue apra le sue porte per garantire allo Stato ebraico la sua esistenza, la sicurezza e la stabilità della sua democrazia.

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