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Produzione scarsa e litigi. Rilancio Ilva ancora al palo

Taranto ferma a meno di 3 milioni di tonnellate di acciaio l'anno. È alta tensione tra Morselli e Gozzi

Produzione scarsa e litigi. Rilancio Ilva ancora al palo

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L'accoppiata Ilva di Taranto-Ponte sullo Stretto vale una settantina di milioni. A collegare le due storie industriali è stato in questi giorni il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini: «Useremo l'acciaio dell'Ilva per costruire il Ponte«. Una suggestione possibile che, nelle intenzioni, avrebbe permesso al governo di prendere due piccioni con una fava: dare ancora maggiore credito all'opera e risollevare le sorti del sito siderurgico da anni in crisi. Come al solito i sindacati hanno subito messo le mani avanti. Per loro «Ilva non produce abbastanza». Ma è davvero cosi?

«Ilva con il suo acciaio - spiega a il Giornale Carlo Mapelli, docente del PoliMi - potrebbe contribuire per l'impalcato e non per il tondo da cemento armato delle torri e per le funi di acciaio (componenti più delicate e strategiche). Questo perché l'acciaio prodotto a Taranto è un prodotto cosiddetto piano, mentre per le ultime due parti serve un prodotto cosiddetto lungo che l'Ilva non produce. Così, a conti fatti, e considerando che l'impalcato pesa circa 80mila tonnellate, questa commessa impegnerebbe Taranto per 10 giorni di produzione sui 355 totali annui. Questo aggiunge il professore - agli attuali livelli produttivi (ora siamo a circa 8mila tonnellate/giorno) e con un prezzo di circa 800 euro a tonnellata porterebbe l'appalto a circa 60-70 milioni». Ma al di là delle analisi, l'uscita di Salvini ha avuto il merito di riaccendere l'attenzione sui problemi produttivi e sul futuro del polo siderurgico, in piena transizione.

Sul fronte della produzione siamo sotto i 3 milioni di tonnellate l'anno (ancora molto sotto gli obiettivi di 6-8 milioni. Nei tempi d'oro i milioni erano 12). Lucia Morselli, l'ad di Acciaierie d'Italia (la società che gestisce l'ex Ilva: 40% Invitalia e 60% Arcelor Mittal), avrebbe chiesto di innalzare la produzione di un 20% entro maggio, ma c'è apprensione per la tenuta del sistema in generale che è strettamente collegata alle manutenzioni fatte sugli impianti che devono smaltire i gas prodotti dalla conversione della ghisa in acciaio. Il tutto, in un contesto ad altissima tensione con i sindacati e l'indotto che chiedono risposte e piani concreti. In particolare le imprese dell'indotto stanno lavorando al 40% e sono pagate con ritardo a circa 180 giorni, aspettando che la ripartenza promessa dell'Afo2 (altoforno) possa sbloccare parte del business (attualmente sono in funzione solo Afo1 e Afo4).

Proprio in questi giorni sono letteralmente volati gli stracci tra Morselli e il presidente di Federacciai Antonio Gozzi. Ad accendere la miccia le parole di Gozzi all'assemblea annuale di Federacciai del 10 maggio. Parole con le quali Gozzi aveva messo in dubbio la capacità dello stabilimento siderurgico di Taranto di «garantire la qualità dei prodotti e la sicurezza nell'ambiente di lavoro». Non solo. «Il privato - ha rilevato ancora Gozzi su Mittal - ha avuto anche momenti di disimpegno perché ha tolto management, ha tolto e garanzie finanziarie, ha creato un'altra organizzazione commerciale».

Una situazione ad alta tensione sulla quale ha tentato di buttare acqua sul fuoco il presidente di Acciaierie d'Italia, Franco Bernabè: «Abbiamo fatto la gara per la scelta della tecnologia» e «a luglio partono gli appalti per realizzare l'impianto che andrà in marcia nel 2026». Dalla tribuna di Made in Steel a Milano, Bernabè ha fatto il punto sul primo tassello della decarbonizzazione del siderurgico di Taranto: la costruzione dell'impianto del preridotto di ferro, il Dri, sigla tecnica di direct reduced iron».

È vero però anche che il 2026 non è esattamente dietro l'angolo e a Taranto c'è chi si domanda cosa rappresenti l'ex Ilva (con i suoi 3 milioni scarsi) per Mittal che secondo il bilancio 2022 ha prodotto nei suoi stabilimenti in Europa 31,9 milioni di tonnellate di acciaio.

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