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Il lavoro forzato e il costo economico della democrazia

Nei giorni scorsi l'Unione europea ha vietato la commercializzazione sul mercato continentale dei prodotti ottenuti con il lavoro forzato

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Nei giorni scorsi l'Unione europea ha vietato la commercializzazione sul mercato continentale dei prodotti ottenuti con il lavoro forzato. Si tratta di una decisione gravida di implicazioni, poiché in definitiva essa s'afferma che il libero mercato non può poggiare sulla violazione dei diritti fondamentali.

Sullo sfondo c'è un duro contrasto geopolitico tra Occidente e Cina, ed è egualmente evidente che queste misure potrebbero essere utilizzate in modo scorretto per intralciare il libero commercio e introdurre misure protezionistiche: sulla spinta di questo o quel gruppo d'interesse.

La questione di principio, però, è cruciale, dato che un mercato non è veramente tale se non poggia sui principi che stanno alla base della libertà: dalla proprietà di sé al rispetto per il prossimo. Per questa ragione non si possono acquistare i servizi di un killer, né gli organi sottratti a un carcerato.

Va anche tenuto presente, come sottolineava Robert Nozick esattamente mezzo secolo fa in un suo volume di successo (Anarchia, Stato e utopia), che la stessa tassazione dei redditi è una sorta di lavoro forzato. Se il ceto politico-burocratico mi sottrae il 10% o il 50% di quanto produco, questo significa che entro quella percentuale mi trovo nella condizione che è propria dello schiavo.

Probabilmente senza neppure avvedersene, nel momento in cui ha evocato i valori morali che stanno alla base delle libertà occidentali l'Unione europea ha quindi chiamato in causa un principio (il diritto a disporre di sé e del proprio tempo) che potenzialmente può minare ogni forma di dominio sovrano e d'imposizione, non soltanto fiscale.

E forse verrà un tempo in cui s'imparerà a fare «2+2» e si trarranno tutte le doverose conseguenze da questa messa al bando dello sfruttamento di ogni lavoro imposto con la forza.

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