Cultura e Spettacoli

Alla festa dell’unità d’Italia non hanno invitato i Savoia

Il programma ufficiale lascia ai margini la monarchia e la diplomazia orchestrata da Cavour. Tutti gli onori riservati a Mazzini e Garibaldi

Le prime avvisaglie delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, ormai alle porte, non sono molto incoraggianti. Lasciano spazio a qualche perplessità. Se non per altro perché nelle sedi, diciamo così, ufficiali sono stati finora pronunciati soltanto in sordina i nomi di Vittorio Emanuele II e del conte di Cavour. E non è stato neppure ricordato il rapporto stretto fra Casa Savoia e la storia d’Italia. Sembrerebbe, quasi, che l’unità italiana, nel bene e nel male, sia stata soltanto opera di Mazzini e di Garibaldi, ovvero della componente «rivoluzionaria» del moto di unificazione nazionale.
Per molte generazioni di italiani la storia del Risorgimento è stata simboleggiata dalle tante stampe oleografiche che raffiguravano insieme i quattro «padri della patria» - Mazzini, Garibaldi, Cavour e Vittorio Emanuele II - quasi a rammentare che al raggiungimento dell’unità nazionale concorsero, pur fra grandi contrasti ideali, componenti diverse ed eterogenee. Si trattava, certo, di una semplificazione, in certo senso pedagogica, funzionale a rafforzare il «mito» del Risorgimento per farne la base della costruzione della coscienza nazionale. Quella immagine oleografica aveva un difetto: era troppo «italocentrica» e lasciava in ombra il dato essenziale che il Risorgimento non era stato un fenomeno soltanto italiano, ma piuttosto un fatto che si inseriva nel più vasto contesto delle grandi trasformazioni europee maturate in quella che è stata chiamata l’epoca delle nazionalità. Eppure, malgrado questo limite, nella sostanza l’immagine era vera. Coglieva nel segno.
La polemica politica, prima ancora di quella storiografica, non metteva in dubbio questa realtà. Poteva concentrarsi sulle modalità di realizzazione dell’unità nazionale, poteva discuterne i risultati e persino la stessa bontà, ma non poteva disconoscere i meriti o, se si vuole, i demeriti del «quartetto» dei «padri della patria». Piacesse o non piacesse, il Risorgimento era stato opera loro. E il fatto che, poi, avesse prevalso una soluzione - quella unitaria, liberale e moderata di Cavour portata avanti d’intesa con Vittorio Emanuele II - era riconosciuto anche da chi questa soluzione non amava e, anzi, considerava pericolosa e foriera di disastri.
Adesso, invece, da qualche anno, le cose sono cambiate. Non tanto e non solo per la ripresa, in grande stile, della letteratura antirisorgimentale o per l’offensiva polemica portata avanti da chi mette in dubbio la stessa bontà della costruzione unitaria in nome di un federalismo male inteso, quanto piuttosto perché a quella immagine oleografica se ne sta sostituendo un’altra che privilegia il ruolo del volontarismo garibaldino e del repubblicanesimo mazziniano. E il pericolo è che questa immagine informi di sé le iniziative in cantiere per il 150° dell'Unità.
Le manifestazioni celebrative si sono aperte ufficialmente, qualche settimana fa, a Genova, alla presenza del presidente della Repubblica, con la cerimonia commemorativa della partenza dei Mille dalla città ligure. In quella occasione il ministro dei Beni Culturali ha anticipato alcune linee guida del programma che, seguendo le indicazioni del Comitato dei Garanti, verrà realizzato per ricordare il Risorgimento e il processo che portò all’unificazione del Paese: restauro di memoriali e di monumenti storici, trasformazione in spazi espositivi moderni di alcuni luoghi della memoria particolarmente significativi come Porta San Pancrazio a Roma, l’isola di Caprera e la Domus Mazziniana a Pisa. Tutti luoghi, guarda caso, legati a filo doppio alla tradizione rivoluzionaria, repubblicana e democratica del Risorgimento.
È importante che, in un momento come l’attuale, le istituzioni si preoccupino di recuperare la memoria storica del Paese e il faticoso cammino di costruzione di una identità nazionale. È importante e giusto, quale che sia il giudizio sul Risorgimento e sul post-Risorgimento. È importante e giusto, perché un popolo esiste in quanto popolo proprio nella misura in cui è consapevole delle sue radici. Ma, per questo, è necessario che le celebrazioni non si risolvano in una lettura parziale e unilaterale del Risorgimento, dimenticando o mettendo in ombra il contributo che ad esso dettero alcune componenti.
Il Risorgimento fu certo legato ai nomi di Mazzini e di Garibaldi, ma fu soprattutto possibile grazie all’abilità e alla genialità di Cavour, che seppe inserirlo nel grande giuoco europeo, e dei suoi collaboratori, in particolare dei diplomatici piemontesi. E grazie, ancora, alla «proiezione» italiana di Casa Savoia, che affondava le sue radici lontano nel tempo e si ricollegava alle ambizioni di trasformare il «ducato» in «regno» e far sì, per usare le parole di Emanuele Filiberto, che il Re di Sardegna non si sentisse «straniero in nessuna parte d’Italia». Tutto ciò può anche non piacere, ma non può essere disconosciuto per motivi politici contingenti, per acquiescenza verso i sottoprodotti di una letteratura storiografica unilaterale e partigiana.

O anche per pura e semplice dimenticanza.

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