Il fisco è molto solerte nel chiedere soldi Nel darli un po’ meno

Caro Paolo, lo sfogo dei frustrati è scrivere ai giornali ma è meglio che niente. Stamani, mentre rimuginavo sulla crisi, sorpresa: nella casella trovo un’ingiunzione a versare euro 44,23 per «ritardato pagamento» delle imposte nel lontano 2007. Il ritardo in questione è di giorni 1 (uno), avendo io oblato l’1 agosto anziché il 31 luglio prescritto. La giustizia fiscale è lenta ma implacabile, e l'informatica non ha cuore. Sarebbe bello se quest’episodio fosse specchio del Paese. Ma, come ben sai, è vero il contrario. Buon Natale.
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E pensa, caro Rino, che di fronte a un attestato di così mirabile efficienza burocratica i più imprecano o, nel migliore dei casi, borbottano. «Ma non hanno altro da fare, all’Agenzia delle entrate?», essi si chiedono, «è così che perdono il loro tempo invece di dar la caccia agli evasori?». Nel caso come il tuo, apriti cielo: «Per un solo giorno di ritardo, per una sciocchezza del genere si svegliano due anni dopo, istruiscono la pratica, procedono al conteggio e spediscono una raccomandata. Tutto quel lavoro per incassare neanche cinquanta euri!». È il concetto a noi italiani carissimo della legge elastica laddove compare il tautologico «entro e non oltre». Un «entro» (il «non oltre» è ovviamente un di più, almeno per coloro che avendo fatto la scuola dell’obbligo conoscono i fondamenti dell’italiano) non categorico, ma con margini di tolleranza che dipendono dagli umori, dagli impegni e dal concetto di tempo del cittadino. Chiediamo a gran voce la certezza del diritto per poi promuovere nella pratica l’incertezza delle leggi. Quanti ne conosco di amici automobilisti che la menano con l’indisciplina (degli altri), coi «mascalzoni» che parcheggiano in doppia fila e mai ci sia un vigile che li multi. Poi quando capita a loro parcheggiare in doppia fila, al vigile che si materializza («ma solo a me, capita? Ma i vigili non hanno altro da fare?») spiegano che erano andati un attimo (per taluni, un attimino) a bere un caffè al bar di fronte. Concludendo: «Mica mi vorrà multare per divieto di sosta quando si tratta di una questione di minuti?». Altri, li conosciamo bene, ricorrono al classico «ma guardi che qui non intralcio il traffico, qui non do fastidio a nessuno», ancora interpretando elasticamente la legge, non riconoscendole la tassatività e dunque la «certezza». Il divieto, cioè la proibizione di parcheggiare in doppia fila vale in assoluto per i soliti «altri» (e guai se sgarrano, guai se sostano anche per pochi minuti), ma quando uno degli altri diventa «me», allora la musica cambia, allora subentra la flessibile interpretazione della norma, il «non bisogna prendere tutto alla lettera», ma con buon senso, fermo restando che nel nostro caso buonsenso e i miei comodi sono un tutt’uno.
Oltre a essere sollecito e puntuale nel chiedere, magari lo Stato dovrebbe essere altrettanto solerte nel dare, caro Rino, ma purtroppo non è così. Quand’ero corrispondente a Parigi, un giorno suonò alla porta un messo. Si accertò ch’io fossi Paolo Granzotto eccetera, mi comunicò che nella dichiarazione dei redditi avevo commesso un errore, pagando trecento e passa franchi più del dovuto, aprì una borsa di cuoio che portava a tracolla, contò trecento e passa franchi, me li consegnò e tratto un blocchetto concluse la pratica dicendomi: firmi qui. Uscito che fu il messo, rimasi per mezz’ora come imbambolato. Mi chiedevo: ma cosa ci vuole? Perché non da noi, in Italia? Ancora me lo chiedo, caro Rino, senza essermi data una risposta che non sia quella che per pudore non voglio riportare.

Per pudore e per amor di patria.
Paolo Granzotto

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