Cultura e Spettacoli

Gandhi, la dinastia al femminile

Dopo l’uccisione di Indira e dei suoi figli, il Paese è orfano di una leadership in cui riconoscersi

nostro inviato a Mumbai (India)
«Like Sonia», come Sonia, mi dice il ragazzino indiano che tenta di vendermi una statuetta di Ganesh, il dio con la testa di elefante. «Come Sonia» mi sorride il tassista del risciò a motore che mi scarrozza per Poona fra centri di meditazione e centri di software. «Come Sonia» osserva compunto il direttore della Jewhangir Art Gallery che ospita una memorabilia sul cinema indiano. «Come Sonia» mi fa un po’ sarcastico l’attivista dello Shiva Sen, L’Esercito di Shiva, il partito induista di Bal Tackeray...
Il sottolinerare l’italianità di Sonia Gandhi può essere un gesto di omaggio nei confronti di chi, come Sonia appunto, proviene dallo stesso Paese, oppure l’accenno, più o meno educato, più o meno rabbioso, al fatto che, dopotutto e nonostante tutto, Sonia è proprio come me, non è indiana, per quanti sforzi faccia, per quanta posta metta in gioco. Presidente del Partito del Congresso, quel partito che fu del marito Rajiv, del cognato Sanjay, della suocera Indira, Sonia è il playmaker della politica indiana: non ha cariche parlamentari, non ha responsabilità governative, ma è in grado di fare e disfare governi, di spostare alleanze in questo o quello Stato. Non è poco per una che all’indomani delle elezioni politiche dello scorso anno aveva lasciato cadere la certezza di essere primo ministro con la giustificazione che la sua famiglia aveva sacrificato anche troppo all’altare della politica... «Così facendo - mi dice un diplomatico italiano in via confidenziale -, si è rafforzata e messa al riparo da qualsiasi accusa di arrivismo, ambizione. E si è ritagliata una sorta di ruolo di madre nobile a cui il cognome aggiunge un appeal importante e per molti versi cancella quell’elemento di estraneità che è stato a lungo il suo tallone di Achille».
Quando nel 1980 Rajiv Gandhi entrò in politica, Sonia fece lo sciopero della fame, rifiutò di parlare al marito per un mese, minacciò di divorziare. «Preferisco andare a mendicare in strada con i miei figli - confidò a un amico - piuttosto che vederlo rovinarsi con le sue mani». Per quanto nel tempo Sonia abbia cercato di fare una specie di patto con il destino, accettando l’attrazione fatale da questi nutrita nei confronti di una famiglia, un cognome, una dinastia, ma cercando di mantenerla a distanza, l’entrata in politica anche del figlio Rahul suona un po’ come se il destino abbia in fondo deciso di aver pazientato abbastanza.
Indira Gandhi. A Living Legacy si intitola il libro che Raghu Rai, il più famoso fotografo indiano e uno dei più grandi fotografi del mondo ha appena dedicato alla figlia di Nehru e al ruolo da lei esercitato per un ventennio, sino a quel drammatico dicembre del 1984 in cui le sue due guardie del corpo sikh le scaricarono addosso un intero caricatore, risposta sanguinosa a chi pochi mesi prima aveva dato l’ordine di prendere a cannonate il Tempio d’oro di Amritsar dove i Sikh del Khaslisthan si erano asserragliati nel nome di un separatismo religioso divenuto sedizione armata. È un volume pieno di foto inedite che concorrono a disegnare il perché di un mito e degli amori, ma anche degli odi profondi, che essa portò con sé, e l’essere uscito proprio mentre sulla stampa indiana venivano pubblicati i testi integrali delle conversazioni fra Nixon e Kissinger ai tempi della crisi indo-americana del 1971 aggiunge un ulteriore tocco alla storia viva di una leggenda nella quale a lungo l’India volle riconoscersi. «Una vecchia strega», «una maledetta puttana», «quei bastardi di indiani», era l’allora giudizio concorde dei due, e quotidiani e settimanali non si sono lasciati scappare l’occasione di innalzare il vessillo del nazionalismo offeso e rilanciare l’immagine di una nazione che se oggi sembra godere di una rinnovata fiducia in campo economico è più che mai carente quanto a immagine pubblica e politica.
Abituata fin dall’inizio della sua storia moderna a figure carismatiche - il Mahatma Gandhi che la traghettò dalla sudditanza coloniale all’indipendenza, il Pandit Nehru che la trasformò in luogo deputato per le speranze di un Terzo mondo non allineato e non dittatoriale, Indira Gandhi che la portò di colpo nel club delle potenze nucleari e ne risollevò l’orgoglio militare con la vittoriosa guerra contro il Pakistan, propedeutica alla nascita di un nuovo Stato, il Bangladesh, e alla rimappatura del subcontinente - da vent’anni a questa parte l’India è orfana di una leadership in cui riconoscersi e/o dividersi. L’ultima figura in tal senso fu Rajiv, il figlio di Indira, il nipote di Nehru, il marito di Sonia, che diede l’illusione di una ventata modernizzatrice: privatizzazioni, liberalizzazione del commercio, un modo più incisivo di riprendere l’antico grido di battaglia materno, «garibi hatao», eliminare la povertà. Lo fermò una donna kamikaze nel 1991: gli si strinse contro durante la campagna elettorale che avrebbe dovuto portarlo nuovamente al potere e si fece saltare in aria con lui per punirlo della sua politica dura contro il separatismo tamil. Brandelli dei due corpi vennero ritrovati a distanza di decine di metri.
È anche per questo che il cognome Gandhi, la dinastia Gandhi, provoca reazioni sopra le righe ogni volta che la Storia si diverte a farli ricomparire. Nella pubblicazione dei colloqui Nixon-Kissinger che hanno provocato una tempesta giornalistico-diplomatica proprio mentre la stagione dei monsoni si inaugurava nel nord del Paese con 150 morti e 250mila senza tetto per poi spostarsi al sud triplicando le vittime e gli sfollati, tutti gli elementi di incomprensione fra Occidente e Oriente, fra realismo politico e messianesimo, fra arroganza da grande potenza e ignoranza geopolitica sono allineati con plastica evidenza. Di quella fiera di incomprensioni e di supponenza che allora andò in scena, negli anni sarebbero rimasti i residui passivi che ancora oggi rendono avvelenato il panorama circostante. Per dirne soltanto uno, la scelta del Pakistan come alleato privilegiato degli Stati Uniti significò da un lato la sottovalutazione del fondamentalismo islamico e il suo utilizzo come elemento di pressione nei confronti di una nazione confinante che aveva al suo interno la più grande minoranza musulmana del mondo, e dall’altro la sua trasformazione come punta avanzata dello schieramento antisovietico in Afghanistan.
Ogni volta che Sonia Gandhi appare in una manifestazione pubblica, la somiglianza con Indira provoca un curioso effetto di ritorno al passato. Identico è il linguaggio del corpo, eguale il suo modo di porsi, di ascoltare, di parlare. Diversa, semmai, è la capacità di resistere alle seduzioni del potere, l’intelligenza con cui ha saputo accettare la dinamica delle coalizioni politiche e il cambiamento della società indiana. Sponsorizzato da Sonia il primo ministro dell’India oggi è un Sikh, Manmoham Singh, e sempre grazie alla pressioni di Sonia il Partito del Congresso è arrivato a fare ammenda per il ruolo nefasto avuto ai tempi dell’Emergenza, quando Indira si ritagliò poteri dittatoriali, e per i massacri dei Sikh dopo l’assassinio della stessa Indira... La dinastia continua, ma sembra aver fatto tesoro dei propri errori.


(3.Continua)

Commenti