Letteratura

Ghetto e Appalachi, il volto triste ma non sconfitto dell'America di oggi

I romanzi di David Joy e Louis-Philippe Dalembert sono due rivelazioni

Ghetto e Appalachi, il volto triste ma non sconfitto dell'America di oggi

Capita di imbattersi in due romanzi che più diversi non potrebbero essere e che, invece, mostrano sotterranei percorsi unificanti. È quanto mi è successo dopo aver letto Dove tende la luce (Jimenez, pagg. 240, euro 19, traduzione di Gianluca Testani) di David Joy e Milwaukee Blues (Sellerio, pagg. 288, euro 16, traduzione di Francesco Bruno) di Louis-Philippe Dalembert.

Joy è originario del North Carolina, dove ha pure scelto di vivere in un'isolata comunità rurale nel cuore degli Appalachi. Dalembert, invece, è haitiano e vive tra l'Europa e Haiti. Il primo scrive in inglese, il secondo in francese. La vicenda narrata da Joy è di stretta ambientazione provinciale, in una delle zone più tradizionali del Sud degli Stati Uniti; quella raccontata da Dalembert è quanto di più urbano possibile, svolgendosi in un vero ghetto, a Milwaukee. Negli Appalachi, naturalmente, di facce di colore non se ne scorgono, mentre in quel quartiere della metropoli del Wisconsin sono i bianchi a non farsi prudentemente vedere. Protagonista di Dove tende la luce è Jacob McNeely, un diciottenne dalla famiglia disastrata, con una madre tossicomane e un padre che gestisce un fiorente traffico di metamfetamine, vera e propria piaga endemica che, come un tempo il moonshine, whisky di produzione illegale, oggi devasta intere comunità. Il suo destino, come quello di molti altri giovani sottratti agli studi e condannati a un'esistenza di sciatteria e violenza, pare segnato, ma uno spiraglio di luce c'è, nella figura di Maggie, la sua prima fidanzata, una ragazza per bene che tutto lascia intendere che possa lasciarsi alle spalle la bruttura di un ambiente a cui nemmeno lo splendore della natura che lo circonda sa dare una patina di luminosità.

Protagonista di Milwaukee Blues, viceversa, non può che essere un ragazzo di colore, Emmett, un giovane nato e cresciuto in un ghetto di Milwaukee in cui persino la polizia fatica a entrare. Viene da pensare che, quando ci entra, sarebbe meglio che non lo facesse, considerato che proprio il tentativo di arrestarlo da parte di una pattuglia di sbirri si conclude nel modo più classico della storia contemporanea degli Usa: con la morte per soffocamento di Emmett, una sorta di George Floyd letterario, che era destinato a grandi cose, attraverso un passaggio da promessa del football in un college prestigioso e la prospettiva di essere scelto da una squadra professionistica. Il destino, si sa, ama tendere tranelli e, nel caso di Emmett, due brutali incidenti di gioco tarpano le ali a una carriera promettente e lo rispediscono in quel ghetto da cui con l'aiuto di una madre che gli fa pure da padre putativo, visto che il suo ha abbandonato da tempo la famiglia aveva tentato di allontanarsi, divenendo il simbolo locale del riscatto. Bob Dylan lo aveva già scritto nella sua splendida Hurricane, schierandosi accanto al pugile di colore Rubin Carter, finito in carcere con l'accusa traballante di omicidio: «Sarebbe potuto diventare campione del mondo».

La morte di Emmett è solo l'inizio: la vicenda umana viene mirabilmente tracciata dai racconti delle varie figure che gli sono state vicine.

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