Politica

Guerra dei marinai senza vincitori

Chi ha vinto fra Iran e Inghilterra? La risposta è: nessuno dei due. È stata solo una battaglia in una guerra in pieno svolgimento. Ahmadinejad non ha affatto convinto col suo show di graziosità piccolo borghesi che hanno celato per qualche minuto il consueto ghigno, con i regalini, i sorrisi. Si intravedeva in trasparenza la retromarcia in politica interna e lo svarione in politica internazionale.
Solo i media lo hanno assecondato nella sua interpretazione del Buono. Se certo c’è da rallegrarsi assai del ritorno dei soldati britannici alle loro famiglie dato quella che abbiamo imparato possa essere la sorte dei rapiti caduti in mano di fanatici religiosi, tuttavia episodi come quello appena conclusosi collocano l’Inghilterra in quella zona di understatement che non aiuta la guerra al terrorismo; Blair, certo «calmo e deciso», come si è complimentato da solo, pure ha saputo contrapporre a una impresentabile prepotenza, all’ennesimo sgarro di un personaggio pericoloso per il genere umano, poco più della tradizionale flemma britannica; un leader in prossima uscita non vuole mai concludere il mandato in modo imprudente, anche se un giorno dovrà forse accorgersi di aver mancato alla chiamata della storia. Blair poteva almeno parlare chiaro, almeno dopo la liberazione dei suoi uomini. Oltretutto la sua linea, quella della fermezza sulle concessioni, non regge data la liberazione di Jalal Sarafi, il «diplomatico» arrestato in Irak. E il fatto che l’Inghilterra non abbia chiesto scusa, ma abbia tuttavia promesso (se è vero) di evitare violazioni, è controverso, ma se l’ha fatto, questo è per Ahmadinejad, che divulga senza tregua una visione di un Occidente corrotto, flebile, vigliacco che sarà stroncato dall’Islam, un premio simbolico micidiale.
Anche i soldati inglesi giustamente compiaciuti di essere vivi, così proni, sorridenti e oranti, sinceramente grati a Ahmadinejad come può esserlo un bravo ragazzo inglese verso il suo salvatore, rivelavano col loro atteggiamento, col linguaggio del corpo, le parole in libertà, che mancava loro persino il training psicologico per comprendere almeno che un soldato occidentale ha oggi dei terribili nemici.
Quanto all’Iran, ha fatto il passo più lungo della gamba. Ahmadinejad ha lasciato, o ha comandato, che le Guardie Rivoluzionarie, a lui fedeli il giorno prima del voto al Consiglio di Sicurezza del 24 maggio, rapissero i quindici marinai nella acque dello Shatt el Arab. Per il presidente è stata una maniera di mettere in rapporto la determinazione a costruire il potere nucleare iraniano con la sua tempestosa, capricciosa e incontenibile determinazione a giuocare il ruolo del bullo del quartiere, quello che sullo scenario internazionale passa con uno spintone e non chiede il permesso a nessuno. Le Guardie, di cui fanno parte le unità Quds (Gerusalemme), dispongono di decine di migliaia di suicidi, gestiscono un vero esercito armato molto modernamente: le Unità agiscono in Irak e altrove in concerto con gli hezbollah e Hamas, volevano vendicarsi per l’operazione americana in Irak che a gennaio ridusse ai minimi termini il loro network cui appartengono anche i sei iraniani catturati a Irbil dagli americani. E, in secondo luogo, aiutavano così Ahmadinejad in un momento di gravi difficoltà interne; Rahim Safavi, capo delle Guardie, personalmente danneggiato dalla prima risoluzione dell’Onu 1737 che ne congela gli affari, inviso a Ali Larjani come a Hashemi Rafshanjani, non prevedeva di dovere concludere il rapimento così in fretta, ma pensava invece di stabilizzare la sua posizione anche rispetto all’Irak e al resto delle grandi operazioni in cui le Brigate Quds hanno le mani.
Ma mentre il mondo si schiera tutto contro i rapitori, più che la paura dell’Onu (su quello tutta la leadership è compatta: «faremo il nucleare comunque») gioca la consapevolezza che ormai agiscono sanzioni nascoste molto serie: più di cinquanta fra le banche e le istituzioni finanziarie più importanti del mondo hanno bloccato i loro rapporti con l’Iran impazzito di Ahmadinejad. Fra queste la Swiss Bank Ubs, la Germany Commerzbank, l’Hsbc di Londra. Molti grandi progetti sono a rischio, come quello con l’India per un grande piano di condotte di gas. L’industria petrolifera e del gas iraniane, ormai vecchie e distrutte, non trovano finanziamenti per il rinnovamento indispensabile. Se Ahmadinejad ha la mentalità messianica e l’assetto strategico della jihad e vuole sacrificare tutto alla venuta del Mahdi, non è lo stesso per chi teme, in Iran, che la politica del presidente stia per far franare il regime. E Khamenei non vuole, anche lui per fede messianica, che Ahmadinejad distrugga ciò che Khomeini ha costruito: il più grande e potente regime islamista sciita in fase di espansione strategica.


Dunque, se c’è un elemento positivo nella conclusione della crisi degli ostaggi britannici, è questo: anche se nessuna parte della leadership dà segno di voler mettere da parte il programma egemonico, armato, nucleare e integralista del suo capo, pure sembra che quando si avverte un rischio per il regime stesso, allora si compie quanto meno una decelerazione dei progetti rivoluzionari. Questo schema può funzionare anche per la costruzione del nucleare? Difficile a dirsi; vale tuttavia la pena di spingere sull’acceleratore delle sanzioni.
Fiamma Nirenstein

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