Politica

«Ho visto corpi a brandelli e la gente in fuga calpestata»

nostro inviato a Londra
«Si ricorda l'immagine del ragazzo con la faccia insanguinata, seduto per terra, con quello sguardo che sembrava pieno di rimprovero dritto nell'obiettivo della macchina fotografica? Fece il giro del mondo, quella foto. A me, degli attentati sui treni a Madrid, è rimasto in mente quel volto, vai a sapere perché. Il resto è tutto dimenticato. Dimentichiamo in fretta, ormai. Scusi se le parlo di Madrid, che è una storia di oltre un anno fa. Le sembrerà incongruente, mi rendo conto. Ma quella faccia attonita, piena di rimprovero, da quel giorno mi è parsa un buon riassunto del nostro mondo, quando il terrorismo cala la sua zampata e tu sei lì, e stavolta tocca a te, e tu dici, se ti resta tempo: ma perché, Gesù Cristo? Qui, dove è saltato l'autobus della linea 30 che va da Hackney a Marble Arch, di scene così - ma identica, le dico - oggi ne ho vista un'altra. Un ragazzo, anche qui, come a Madrid, e una donna matura, sui sessanta, col carrello della spesa insanguinato ancora in mano. Seduti per terra, inebetiti, come offesi. Ecco, un momento fa pensavo che da oggi ho due facce nuove da sostituire a quella di Madrid. E sono facce di miei concittadini».
A metà pomeriggio il dottor Lawrence Buckman si aggira per Tavistock square, dove si vedono ancora le lamiere slabbrate del bus sul quale lui giura di aver contato almeno dieci morti. La scena è quella vista tante volte a Gerusalemme, a Tel Aviv, a Bagdad. Col sangue per terra, e brandelli di carne umana mescolati a ferraglia, scarpe spaiate, pezzi di indumenti, borse sventrate. E però fa una dannata impressione vedere scene che, anche se c'è stata Madrid, ci sembrano ancora così fuori contesto. Il dottor Buckman stava andando in ufficio, alla British Medical Association, quando si è ritrovato in mezzo al carnaio. «Mi sono dato subito da fare, insieme con altri volontari, ma per otto passeggeri del bus si vedeva subito che non c'era più nulla da fare. Altri due li ho visti morire con i miei occhi. La scena era pazzesca. Adesso hanno un po' ripulito, ma c'era sangue fin sulla facciata di quel palazzo, vede? a cinque o sei metri dal bus».
Ayobami Bello, 46 anni, guardia giurata presso la vicina London School of Tropical Hygiene and Medicine era a 30 metri quando si è sentito spingere a terra da una ventata. «È stata una faccenda del diavolo, creda. L'autobus è andato in pezzi come se fosse stato di cartone. La parte posteriore, praticamente non esisteva più. Via il lunotto, e al suo posto, il corpo di una persona, con le gambe rivolte verso l'interno dell'autobus e il busto all'esterno, a testa in giù». «All'improvviso ho sentito un gran botto, e la gente sull'autobus sul quale viaggiavo io ha cominciato subito a gridare all'attentato. Quelli che erano più indietro dicevano d'aver visto dai finestrini il fumo che saliva dal bus centrato. Be’, a quel punto - racconta David Jones - c'è stato un parapiglia, tutti spingevano per scendere, qualcuno ha strattonato l'autista che è stato costretto a fermarsi. Non c'era molto fuoco, però si sentiva nell'aria l'odore dell'esplosivo. Cos'ho pensato? Quello che devono aver pensato tutti. Il G8, i Giochi Olimpici assegnati a Londra, Al Qaida. Insomma ho pensato che nessuno vuole che Londra festeggi».
Gena O'Neil, studentessa di veterinaria, era su un treno che aveva lasciato da tre minuti la stazione di King's Cross quando c'è stata una delle esplosioni nel ventre della città. «Ero in piedi vicino a un finestrino - racconta - e a un certo punto mi sono sentita una gragnuola di vetri che mi colpiva in testa. Le luci si sono spente di botto, e subito si è sentito quell'odore di fumo. Be’, io penso che in casi come questo si relizzi l'incubo di chiunque ogni giorno deve prendere il metrò. Uno pensa: e se mettono una bomba? Come si fa a salvarsi in un caso del genere? Be’ adesso lo so. Basta avere un po' di fortuna, e qualcuno in Cielo che ti guarda». Molti, sulle carrozze del metrò centrate dalle bombe avevano ieri mattina un ombrello al braccio. Le previsioni del tempo dicevano: ampi piovaschi alternati a schiarite. Il solito, insomma. Uscendo di casa, molti avevano impugnato perciò l'ombrello, e ora se lo rigirano tra le mani, e ci si pavoneggiano in tv spiegando che è stato grazie alla punta del benedetto ombrello che sono riusciti a rompere i finestrini delle carrozze e a mettersi in salvo. «Sono state scene di panico autentico, con la gente che correva da tutte le parti come un gregge di pecore incalzato dalle fiamme. Io sono sicuro che molta gente si è ferita solo perché è stata travolta dalla gente che scappava», dice Trevor, un ragazzo di Trinidad e Tobago che ieri mattina stava andando all'università e al momento delle esplosioni era tra Aldgate e Liverpool street. «Sa com'è in questi casi. Il buio, il fumo, il sentore di morte che ti circonda. Non hai tempo per ragionare. Fai come fanno tutti. Scappi, anche se non sai dove. Intorno a me sentivo gente che si faceva strada a manate, spingendo da parte i più deboli. Molti cadevano, e venivano calpestati da quelli che stavano dietro. Vorresti, ma non c'è tempo per soccorrere chi è caduto, chi è scivolato. Secondo me molti feriti si sarebbero potuti salvare, e magari qualcuno è morto solo perché non è riuscito a sollevarsi da terra», mormora Trevor.
Ecco dunque. È l'attacco al cuore dell'Europa che tutte le polizie, a partire da Scotland Yard (nonché tutte le persone dotate di un minimo di assennatezza) si aspettavano, dopo la prova generale dell'11 marzo a Madrid. Metteranno le bombe nel metrò. E le metteranno a Londra si diceva, dicevano tutti, seguendo la logica perversa del «chi sarà il prossimo». Ma si diceva «bombe nel metrò» come se si recitasse un rito apotropaico, come si fa quando si fanno le corna dietro la schiena o quando si accarezza un corno di corallo che si tiene in tasca. Nessuno credeva che sarebbe davvero accaduto. Nessuno tranne gli inglesi, forse, che ora infatti reagiscono con una calma, un appiombo, una freddezza, una saldezza di gente che si sa nazione che mette un po' d'invidia. Da allora, da Madrid, sono passati 16 mesi. Un tempo che a noi, tarantolati dei tempi moderni in cui gli eventi si consumano tutti e subito sembrano enormememte dilatati. A noi però; non al signor al Zarqawi, o ad Al Zawahiri, braccio destro di Osama.

Loro, il tempo lo misurano su un altro calendario.
Luciano Gulli

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