Cultura e Spettacoli

I «Parassiti» che drogano la letteratura

Delineando i suoi personaggi, Massimiliano Governi sceglie il narrare come fuga dalla serietà della vita

Preparatevi a leggere una banalità: crediamo che ciò che una volta, pomposamente, si chiamava lo «spirito del tempo» e al quale oggi si preferisce alludere con termini più semplici (la temperie culturale, per esempio) non sia reperibile nei capolavori, ma piuttosto negli scritti meno riusciti dei grandi autori; oppure nelle opere dei minori. I libri immortali guardano sdegnosi alla Storia, alla quale non si lasciano ridurre: ogni classico è un figlio illegittimo del suo tempo e semmai sarà la Storia ad essere figlia dei romanzi. In Italia, almeno, è stato così. La letteratura minore, invece, ha tutte le carte a posto: può circolare liberamente, è subito riconosciuta, ognuno si specchia in essa.
Riflettevamo su queste cose leggendo Parassiti di Massimiliano Governi (Einaudi, pagg. 142, euro 10). Si tratta di otto racconti animati da stili diversi; e se in nessuno di essi l’autore, bisognerà pur ammetterlo, svetta, li padroneggia tutti lasciando il lettore nel dubbio su quale sia il linguaggio che meriterebbe di prevalere, la sua vera voce. Quella flebile del bambino undicenne del primo racconto, 1979, che per aver assistito alla morte di un compagno di giochi non riesce a «rientrare» nella vita e si getta dal terzo piano? O quella cannibalica e un po’ stantia di Fusi? La rievocazione ironica del paroliere che rimpiange gli anni della contestazione ma intanto vende slogan pubblicitari alle compagnie telefoniche, o l’incubo semiserio ed amletico del giocatore di serie A che dopo una stagione strepitosa non segna più un gol e passa le giornate ad escogitare soluzioni di ogni tipo? «Forse dovrei andare dallo psicologo della squadra, da un mago. Io sono un attaccante, maledizione. Io gonfio la rete. Forse dovrei andare da un dottore della testa». Magari scegliere non serve nemmeno, perché la contemporaneità, o meglio ciò che nella letteratura giovanile sembra debba essere la contemporaneità, è composta da tutte queste voci ed è proprio dal loro succedersi che si può trarre una lezione, un’immagine del presente.
Se però ci lasciamo indirizzare dall’ultimo racconto, che dà il titolo all’intera raccolta, nonché dalla frequenza con cui le figure di Governi hanno a che fare con il mondo della letteratura, forse la scoviamo, qualcosa che corra attraverso tutte e otto le storie: abitate appunto da parassiti. Parassiti sono i personaggi di Governi perché innegabilmente non produttivi, perlomeno nel senso stretto, cioè filisteo, della parola; ma sono parassiti anche alcuni animaletti che vivrebbero tra le pagine spargendo muffe velenose. «Si depositano sulla muffa delle pagine e delle copertine dei libri e producono spore allucinogene. Forse è proprio una buona sniffata di queste spore che ti ha tenuto in vita fino adesso». La letteratura come droga, dunque: Governi chiude la sua raccolta con una metafora incontrollabile. Il desiderio di narrare sarebbe soltanto un modo per sfuggire alla serietà della vita, un espediente stupido che conduce spesso all’autodistruzione.

A questa tesi vi sarebbe molto da obiettare, ma non con gli strumenti della critica letteraria, bensì con quelli dell’esperienza: credere che il paradiso sia sempre illusorio, oppiaceo, irreale, e il dolore più solido, più attendibile della felicità, è il metodo migliore per trasformare la propria e l’altrui vita in un inferno.

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