Politica

«Indagando su Omar arrivammo ai kamikaze»

Nel suo libro, il magistrato indicò l’imam tra i reclutatori di estremisti per l’Irak. «Sospettammo subito del sequestro»

Fausto Biloslavo

Abu Omar, l’egiziano sequestrato dalla Cia a Milano, faceva parte della rete della guerra santa islamica che reclutava «i ragazzi dal Giappone», come venivano chiamati i kamikaze da mandare in Irak. Non solo: di Omar la magistratura italiana aveva parlato con l’Fbi ed il sospetto che il leader fondamentalista egiziano sia stato sequestrato da un servizio straniero si fece subito strada fra gli inquirenti milanesi. Non si tratta di informative riservate, ma di notizie contenute nel libro «Milano-Baghdad», scritto dall’ex pubblico ministero Stefano Dambruoso, con l’aiuto del giornalista del Corriere della sera Guido Olimpio, uscito nel maggio dello scorso anno. Prima del suo sequestro, nel febbraio 2003, Abu Omar era uno degli elementi più radicali sotto il controllo del nucleo della Digos di Milano che si occupa di terrorismo islamico, guidato da Bruno Megale. Proprio Megale informò allarmato l’allora pm Dambruoso, che oggi lavora alle Nazioni Unite a Vienna, dell’intercettazione di una telefonata fra estremisti, in cui si parlava dei «ragazzi dal Giappone», ovvero terroristi kamikaze. Il mullah Firas, che da Parma si era trasferito in Siria, per organizzare l’infiltrazione di volontari suicidi in Irak, chiamava al telefono il suo referente in Italia, Diram, che da poco aveva sostituito Abu Omar, sparito nel nulla grazie al colpo di mano della Cia.
Gli inquirenti erano arrivati ai «ragazzi dal Giappone», grazie ad Abu Omar, che fin dal 2002 visitava una cascina di Parma, utilizzata come base dai fondamentalisti curdi, che reclutavano kamikaze per l’Irak. Nel suo libro, Dambruoso scrive che Abu Omar è «ritenuto sin dai primi passi dell’indagine la vera “luce” degli integralisti». Gli inquirenti, informati dai familiari e dall’imam della moschea di viale Jenner della sparizione dell’egiziano, sospettarono subito il sequestro. «La circostanza del presunto rapimento ci preoccupava, posto che a me e al mio capo Armando Spataro si impone la necessità di individuare gli autori di un sequestro», scriveva Dambruoso un anno fa «(...) rischiavamo di imbatterci in qualche servizio segreto straniero, con le conseguenti difficoltà di natura “diplomatica”».
Abu Omar non solo faceva parte della nuova strategia di Al Qaida inaugurata dopo la sconfitta afgana, ma perseguiva alcuni obiettivi che stavano particolarmente a cuore ad Osama Bin Laden. «Al Qaida ed i suoi federati sognano di far assassinare gli occidentali da altri occidentali» scrive ancora Dambruoso. «Nella nostra inchiesta sulla rete curda c’è un’intercettazione di un colloquio avvenuto a Milano che conferma questo disegno ­ si legge nel libro ­. Risale al giugno dal 2002. Da una parte c’è Abu Omar, l’egiziano che fino alla sua sparizione ha diretto con il pugno di ferro i militanti a Milano. Dall’altra c’è un uomo venuto dalla Germania». Abu Omar chiedeva se nelle cellule della guerra santa possano venir reclutati anche non arabi, cioè occidentali. L’interlocutore caldeggiava questa eventualità sostenendo che la rete ha già a disposizione «albanesi, svizzeri, inglesi».Di Abu Omar e dei suoi contatti Dambruoso parlò durante una riunione nell’ufficio dell’Fbi a New York, per scambiare informazioni. Se la Digos di Milano avesse voluto sarebbe stato facile «insabbiare» il rapimento dell’egiziano. Invece è proprio Dambruoso che continuò a firmare le richieste di intercettazione del telefonino della moglie dell’imam radicale.

Così, il 20 aprile 2004, un anno dopo la sua sparizione, Abu Omar chiamò la consorte dall’Egitto e confermò di essere stato rapito e portato alla base americana di Aviano, come tappa intermedia.

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