Politica

India, torna l’incubo tsunami Cronaca di un Paese in fuga

La zona più colpita è Gujarat, dove si contano 135 morti e 250mila senza tetto. Le autorità locali si difendono: «Avevamo informato la popolazione»

Stenio Solinas

nostro inviato da Bhavnagar (Gujarat)

Fra terra e cielo non c’è più alcuna differenza, ma è solo acqua, sopra e sotto e intorno a te, a perdita d’occhio per chilometri. Il Gujarat che diede i natali a Gandhi affonda e come in una pellicola in bianco e nero a cui sia stato messo un filtro seppia, il panorama che si imprime nelle pupille ha i colori dell’acciaio e del fango, i fiumi e i laghi che straripano all’interno, il Mar Arabico del Golfo di Cambay che flagella le coste, il terreno che si sgretola e porta via con sé strade, capanne e case, industrie e ponti, radure e bestiame. Sotto un’umidità soffocante e una pioggia a sprazzi che si carica e si scarica è come ritrovarsi in una misteriosa scacchiera, percorribile ora in verticale, ora in orizzontale, ora zigzagando, ora andando in circolo, a seconda se abbia retto un crocevia, una statale, una carreggiata, un pascolo, una coltivazione. Lì dove l’acqua non è riuscita a sommergere il manto stradale, ma lo lambisce, lo circonda e lo minaccia, processioni di greggi e di mandrie lo contendono alle macchine, carcasse di mucche, di pecore e di cani si allungano sui bordi e intanto in motocicletta ci si sta in quattro, in auto in dieci, in motoscooter, le Api, le Lambrette, il parco motorizzato di un Paese all’avanguardia nella tecnologia, ma ancora fanalino di retroguardia nella meccanizzazione, ospitano equipaggi e mercanzie, cose e persone: un televisore, dei tappeti, del vasellame, un salotto, un nonno, una nidiata di bambini.
Ma intanto i morti sono arrivati a 135, i senza tetto sono già oltre 250mila, il ministro degli Interni Patil ha stanziato un primo aiuto pari a un miliardo di dollari, il primo ministro indiano Singh ha pronunciato la parola Tsunami, allineandosi alle dichiarazioni del premier del Gujarat Modi. Grande quasi quanto l’Italia e più o meno con la stessa popolazione, realtà industriale e agricola, il Gujarat è la terra dove Vishnu ebbe la sua ottava incarnazione come Krishna, guerriero e fondatore di città e la roccaforte del Jainismo, la più ascetica delle sette staccatesi dall’Induismo, l’universo visto come infinito ed eterno, privo di un’entità creatrice.
Quella di cui siamo testimoni è un’alluvione di cui non colpisce tanto la violenza quanto la lenta ma incessante progressione distruttiva, una marea d’acqua che avanza inesorabile senza correre, lasciandosi dietro di sé un paesaggio lunare color dell’acciaio, il silenzio attonito dei luoghi senza vita.
Era cominciato tutto sottotono nemmeno una settimana fa, con la stampa locale e nazionale intenta a trasformare la stagione dei monsoni in un richiamo turistico, una sorta di attrattiva a metà fra l’ecologia e la psicologia. «È la terra che torna a respirare» dicevano i meteorologi delle catene televisive, «è una liberazione anche per il corpo umano, svuotato dal caldo eccessivo, impossibilitato a riequilibrarsi». Mumbai aveva salutato le prime piogge alla stregua di un rito collettivo di purificazione: tutti per strada e sotto l’acqua a ridere e a ballare... Poi sono cominciati ad andare in tilt i servizi ferroviari con il nord del Paese, vitali in una nazione che delle lunghe distanze su strada ferrata ha fatto un modello di vita e una ragione economica, con i viaggiatori lasciati fino all’ultimo nell’incertezza e sempre più nell’impossibilità di muoversi. Le autorità preposte hanno dapprima fatto finta che tutto fosse sotto controllo e si è assistito addirittura al balletto delle ritorsioni: «Non è vero che non abbiamo informato, non è vero che non ci fosse un numero verde per saperne di più»... Poi quando dalle ferrovie il caos si è esteso sulle strade si è fatto un doppio salto mortale e si è cominciato a parlare di catastrofe nazionale.
Arrivato a Mumbai nei giorni in cui il monsone era come una sorta di benedizione, chi scrive sarebbe dovuto andare nel Gujarat in macchina, destinazione Alang, nel Golfo di Cambay, il più grande bacino al mondo di demolizione delle navi. Dalle risposte evasive e dilatorie degli uffici di autonoleggio («C’è qualche strada interrotta, non sappiamo quanto tempo potrebbe metterci...») avevo capito che non era cosa e tagliato la testa al monsone volando su Bhavnagar, nel centro della regione. Il giorno in cui sono arrivato è quello in cui una buona metà del Gujarat, tutto il sud e parte del centro, è andata sott’acqua. Nelle successive quarantott’ore è andato sotto il 70 per cento.
Adesso che dopo una giornata in macchina sono a nemmeno 200 chilometri da dove ero atterrato, una specie di gioco al rimpiattino fra l’auto e l’acqua, spingersi dove lei ancora non c’è, tornare indietro dove è appena arrivata, aspettare che ricoprano la crepa che ha spaccato in due il manto stradale, sperare che quel ponte sia ancora transitabile, e tutto e sempre sotto una pioggia intermittente che non si stanca, che non ti lascia mai, l’idea di stare dentro a una tragedia è in qualche modo frenata dall’atteggiamento di chi quella tragedia la vive in prima persona e sulla propria pelle, sulle proprie cose. Non c’è disperazione, e sì che per chilometri l’unica cosa che vedi emergere dall’acqua è la chioma di un albero o i piloni dell’elettricità, non c’è un sentimento di paura. Non c’è però nemmeno rassegnazione, perché tutti si danno da fare, aiutano e si aiutano, i bambini appaiono più incuriositi che impauriti.

È una specie di abitudine al peggio, di consuetudine con la catastrofe, l’altra faccia della medaglia, in fondo, per la quale un quarto di milione di senzatetto e più di cento cadaveri non sono sufficienti perché i media occidentali, stampa e televisione, decidano di interessarsene.

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