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Comunisti anonimi a Parigi (tra inganni e traslochi)

Nelle sue memorie il figlio dello storico segretario racconta come fu addestrato a essere un "compagno perfetto": mai lasciare nulla di scritto e tante bugie

Comunisti anonimi a Parigi  (tra inganni e traslochi)

«Storia di un figlio del mio secolo (1923-1998)» è il titolo delle memorie autobiografiche scritte da Gino Longo, figlio dello storico segretario del Pci Luigi, rimaste fino a oggi inedite. Quattromila pagine di ricordi che formano un vero e proprio album di famiglia del comunismo internazionale. Il documento è costato all'autore, nato nel 1923, 26 anni di lavoro tra il 1981 e il 2007. Longo vorrebbe ora procedere alla pubblicazione, ma nessun editore si è ancora fatto avanti. Da domenica scorsa «Il Giornale» sta dedicando una serie di articoli al diario di Longo. Questa è la quinta puntata.

La vita dei rivoluzionari di professione emigrati all'estero comportava qualche rischio; primo fra tutti, quello di essere identificati ed espulsi dal Paese in cui si era ospitati. Ecco perché i comunisti italiani, nella pur democratica Francia dove si rifugiarono in massa dopo l'avvento del fascismo, praticarono i dettami della vita cospirativa con un rigore maniacale, addirittura paranoico. In seguito all'ascesa del Fronte Popolare, nel 1936, gli uomini del Pci, sentendosi tutelati dal nuovo corso del governo socialcomunista, allentarono la vigilanza, rinunciando alle loro coperture. E, dal loro punto di vista, fu un errore: perché, quando il governo Daladier, allo scoppio della seconda guerra mondiale, mise al bando il Partito comunista francese, quinta colonna del potere sovietico e sostenitore del patto Ribbentrop-Molotov, fu semplicissimo acciuffare i compagni italiani e internarli.

Il figlio del leader comunista Luigi Longo, Gino, di cui stiamo passando in rassegna le memorie autobiografiche, dedica molte pagine a illustrare le modalità della presenza clandestina dei militanti e dei dirigenti del Pci, in Francia, tra la fine degli anni Venti e il principio del decennio successivo. Il figlio di Longo e di Teresa Noce, giunse a Parigi all'età di sei anni, nel 1929, e fino all'inizio del 1931 passò, di recapito in recapito, attraverso cinque diverse sistemazioni, sotto l'ombra protettiva di quei precetti cospirativi. In che cosa consistevano, tali norme di vita rivoluzionaria? «Frequenti traslochi e trasferimenti erano la regola: si raccomandava di non passare mai più di un trimestre (il terme d'affitto), al massimo due, al medesimo indirizzo, per far perdere meglio le tracce. Per la stessa ragione si affittavano di solito appartamentini o camere ammobiliate. Ma assieme alla casa non si cambiava soltanto indirizzo, si cambiava tutta la biografia: cognome dei genitori, professione del padre (doveva essere tale da giustificare una breve permanenza e possibili viaggi), la posizione della madre, la propria storia (da dove venivi, che scuola avevi fatto, ecc.), spesso anche la nazionalità. Bisognava quindi, a partire da un certo giorno, mandar bene a memoria la nuova “leggenda” e dimenticare totalmente quella precedente, stando attento a non confonderti: né con la portinaia, né col panettiere, il lattaio o i bottegai del nuovo quartiere!».

Era dunque necessario essere istruiti a mentire, e fin dalla più tenera età. Le regole ferree che Longo racconta assomigliano tanto a quelle seguite dai gappisti nelle città, e poi dai loro nipotini delle Brigate Rosse, negli anni Settanta. «I compagni del Centro estero, a differenza degli altri emigrati antifascisti, praticamente vivevano tutti quanti con documenti più o meno falsificati, che di solito venivano forniti loro dai compagni francesi, oppure erano pure veri, ma rilasciati sulla base di altri documenti, che invece erano falsi. Un'altra regola concerneva l'uso di pseudonimi. I nomi veri erano assolutamente fuori corso nell'illegalità, e il segreto era assai ben custodito. Io per anni frequentai buona parte dei compagni del gruppo dirigente, ma conoscendoli sempre e solo sotto il loro nome di battaglia, mai con quello vero. Di parecchi di essi (Dozza, Berti, Novella, Maggioni, Vidali, Regent) il nome vero lo seppi soltanto dopo la Liberazione. Per Togliatti e quelli di Mosca, Grieco, Cerreti, Amadesi, Marchi, un po' prima, nel 1943, dopo il 25 luglio. Le cose cominciarono a cambiare soltanto a partire dal 1937-38, quando, col Fronte Popolare, si cominciò a fare qualche strappo alla regola, soprattutto per i compagni usciti di prigione, come Sereni, Amendola o Bibolotti. Gli stessi membri del Centro estero, se non avevano conosciuto già prima i compagni coi quali lavoravano, ne ignoravano il nome vero. Gli pseudonimi potevano anche essere più di uno, se si svolgevano attività diverse: Allard (Giulio Cerreti) a un certo momento ne ebbe addirittura cinque».

Fin dall'infanzia, dunque, il figlio dei due dirigenti del Pci, venne addestrato a comportarsi da «perfetto comunista»: non lasciare mai nulla di scritto, mandare a memoria le direttive orali (e in genere tutte le informazioni riguardanti la vita clandestina del partito) e poi subito cancellarle non appena avevano cessato di essere utili.

Verso la fine del 1929, Gino Longo passò ad abitare in casa di Bianca D'Onofrio. Il marito di questa, Edoardo, fu un personaggio importante della «vecchia guardia» stalinista del Pci. Nato nel 1901, romano, responsabile del Centro interno del partito nel 1927, venne arrestato l'anno successivo. Liberato, espatriò nell'Urss nel 1935.

Nel'37 lo ritroviamo rappresentante del Pci presso le Brigate Internazionali, in Spagna. Rientrato in Russia nel 1939, lavorò alla sezione quadri del Comintern fino allo scioglimento dell'Internazionale. D'Onofrio, detto Edo, fu segretario di redazione alla rivista Alba, presso cui lavorò anche Gino Longo. Fonti testimoniali indicano che D'Onofrio fu persecutore dei nostri prigionieri nell'Urss. Nel dopoguerra, Edo fu una delle colonne della Gladio Rossa, l'organizzazione paramilitare clandestina del Pci.

Ma torniamo a quell'ultimo scorcio degli anni Venti, a Parigi. Il flash back di Gino Longo ci riporta a una incomparabile foto di famiglia del comunismo italiano. Bianca D'Onofrio, nella Ville Lumière, su ordine del partito, aveva avviato una tintoria-lavanderia, che avrebbe dovuto fungere da recapito clandestino per il lavoro con l'Italia. Tale recapito era conosciuto da pochissimi dirigenti del Pci: praticamente solo da Camilla Ravera, nuova responsabile del Centro interno dopo l'arresto di D'Onofrio, e da Teresa Noce. Quest'ultima, ex stiratrice, insegnò a Bianca, del tutto digiuna in proposito, l'uso dei «ferri del mestiere».

Longo racconta i retroscena sentimentali della tinto-lavanderia. Accadde che l'unico compagno che oltre alla Ravera frequentava il recapito, un corriere del partito, Luigi-Duccio Guermandi, pensò di consolare Bianca, il cui marito, lo ricordiamo, a quel tempo era in gattabuia: «Il guaio è che Edo, venuto a saperlo in carcere, la prese male: “Come, mentre io sto in galera, debbono essere proprio i compagni a mettermi le corna?”.

D'Onofrio sarebbe stato in futuro assai più tollerante, ma per il momento era ancora molto giovane. Non so se rivide la Bianca quando uscì dal carcere qualche anno dopo, ma quel che è certo è che con lei non si rimise, nonostante il figlio».

Edoardo D'Onofrio si sposò con una donna spagnola, conosciuta mentre combatteva con i repubblicani in terra iberica. Quando il figlio di Longo ebbe modo di rivederlo, a Mosca, nel 1941, scoprì che di moglie ormai ne aveva una terza, una bulgara sui 26 anni, che aveva incontrato in una casa di riposo.

(5.Continua)

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