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Giambruno e le sue guasconate: quegli scherzi che una premier non può permettersi

L'ex "first gentlemen" non è stato elegante ma giocava. Una compagna può accettarlo, chi ha una responsabilità istituzionale no

Giambruno e le sue guasconate: quegli scherzi che una premier non può permettersi

Sarebbe stato impensabile, qualche anno fa, un congedo come quello di Giorgia Meloni dal suo compagno, scoperto in flagrante fuori onda da Striscia la notizia, dopo aver condiviso sentimenti e divertimenti, amandosi e giocando con caratteri e gusti inevitabilmente compatibili, anche se con ruoli impari. Come credere che lei non ne conoscesse il temperamento e, per scoprirlo, abbia dovuto aspettarne un'esibizione televisiva rubata? Che fino a quel momento Giambruno non si fosse rivelato?

Evidentemente il costume è cambiato, e anche i rapporti tradizionali subiscono mutamenti. Con l'uomo, più debole, che viene licenziato platealmente e senza preavviso. Una storia si interrompe per colpi di scena e la sfera privata diventa spazio pubblico, ci riguarda anche se non lo vogliamo. Non ci interessano solo gli atti della presidente del Consiglio, ma anche i sentimenti e le insofferenze che si manifestano attraverso messaggi sui social e agenzie.

Giambruno non è stato elegante, ma giocava; e la prima a conoscerlo, e a condividerne il temperamento allegro e guascone, era certamente la sua compagna. Era difficile difenderlo, ma certamente non ha tradito un patto d'amore, tant'è che nel messaggio che la premier ha consegnato ai social gli è stata confermata l'amicizia. Ha involontariamente rivelato la sua natura, nota a lei sola. Prendere le distanze da lui, tradito dalla televisione in cui gioca, è crudele, ma si può capire: non per la donna, complice, ma per la presidente del Consiglio, che non se lo può permettere. I rapporti cambiano, e la sfera del privato non è più esclusiva. Non sono più Giorgia e Andrea. E lui sembra non averlo capito. Non si può più giocare in due. E il «sessismo» è un nuovo reato.

Quando mancano le idee nascono parole nuove. Ai tempi dei miei genitori non esisteva la parola «femminista» e, conseguentemente, neanche la parola «maschilista». Con il tempo se ne è capito il significato: volevano dire non solo la fine della famiglia, ma il rovesciamento dei ruoli. Ciò che nella mitologia erano Hermes e Hestia, cioè la condizione dell'uomo e quella della donna in una società organizzata sulle diverse responsabilità, è diventata una lotta delle donne per conquistare spazi «esterni» che non erano mai stati preclusi né interdetti, ma limitati alla capacità e alla vitalità di alcune donne.

Mia madre era più forte di mio padre, e non è mai stata femminista. Era una donna coraggiosa. Non che mio padre non lo fosse, ma era più contenuto o trattenuto, era meno audace. Il problema era caratteriale, ma il femminismo impose un rovesciamento dei ruoli e un combattimento per conquistare spazi storicamente occupati dai maschi. Infatti la storia è in parte mutata: le donne hanno occupato quegli spazi, e sempre più le famiglie si sono dissolte. Neppure l'adulterio, formidabile correttivo alla malformazione del matrimonio, era più sufficiente e - con il femminismo - iniziò l'era del divorzio. A prevalente vantaggio delle donne.

È l'argomento da cui muove il libro di Antonio Serena Scene da un divorzio. Storia di paradossi bene evidenziati dal diverso trattamento di due donne privilegiate, in quanto assurte ai vertici dello Stato: il già presidente della Camera Laura Boldrini e il già presidente del Senato Elisabetta Casellati. Leggiamo, non senza qualche stupore: «Le offese e le minacce sui social possono essere giudicate in maniera diversa. Il giudice del tribunale di Savona Emilio Fois ha condannato il sindaco di Pontinvrea Matteo Camiciottoli, accusato di diffamazione ai danni dell'allora presidente della Camera Laura Boldrini, al pagamento di ventimila euro di multa (...) poiché quest'ultimo, commentando sui social gli stupri avvenuti in spiaggia a Rimini nell'estate del 2017, aveva affermato che gli arrestati «dovevano essere mandati ai domiciliari a casa della Boldrini, magari le mettono il sorriso».

Anche l'attuale ministro per le Riforme istituzionali Elisabetta Casellati era stata travolta da una violenta campagna di odio, con minacce su Facebook e Twitter: «Ammazziamo la Casellati», «Voglio uccidere la Casellati». Per il Pm Erminio Amelio della Procura di Roma, però, non si tratta di un reato: il pubblico ministero ha chiesto e ottenuto l'archiviazione dell'inchiesta aperta con l'ipotesi di minaccia aggravata. Il motivo? Non sarebbero minacce reali ma rabbia politica espressa con quelle parole nei confronti di un'istituzione. Il diverso verdetto dipende certamente dalle diverse posizioni politiche delle due presidenti. Ma non va trascurato che una era femminista e l'altra no. Le vicende parallele fanno riflettere su un'altra parola che non esisteva fino a qualche anno fa, e negli ultimi tempi è frequentemente collegata alle mie parole o alle mie posizioni: «sessista». Un'ulteriore estensione del vituperato «maschilista», ma con minore pregnanza e maggiore gravità. «Sessista» è prevalentemente un maschio che parla di una donna in termini sessuali, ovvero con riferimento al piacere fisico o al desiderio o all'avvenenza o alla sensualità determinata dalla visione di una donna.

Mancando il riferimento al sesso del «sessista», l'orrido neologismo dovrebbe valere anche per il desiderio o il piacere di una donna, per la sua dichiarata attrazione per un maschio, per i suoi ragionamenti sulla bellezza o sulla prestanza di un uomo. L'inconsistenza della parola si mostra proprio in questo. Una donna che si innamora del sesso di un uomo non è sessista. Non lo è, come invece dovrebbe esserlo, una pornostar, e non lo è neanche una femme fatale, ovvero una seduttrice, categoria che sembra estinta. «Sessista» sono io se parlo delle donne che ho conosciuto e perfino se parlo della mia prostata, che comporta alcune, perfino comiche, limitazioni. Sessista è, in forma caricaturale e ridicola, il Pasquale Ametrano di Verdone.

La conseguenza è che non si può scherzare, e lo dimostra, esemplarmente, il caso Giambruno. Evidentemente ignaro della congiura delle parole che incollano chiunque pensi di poter fare battute sul sesso, oggi improponibili, alla sua minorità. E lo fanno colpevole anche dello scherzo. Finito il gioco, finito il divertimento, finita l'ironia. Essere ridicoli non è né un alibi, né una giustificazione. Sarebbe inimmaginabile oggi l'umorismo che rese celebre il Gastone di Petrolini: «Gastone, sei del cinema il padrone. Gastone, ho le donne a profusione e ne faccio collezione».

E, come è già accaduto con il finale rovesciato della Carmen, presto, non essendo emendabile, sarà irrappresentabile il Don Giovanni di Mozart, soprattutto l'aria «Madamina il catalogo è questo», in cui si elencano gli amori del padrone, dalle 640 in Italia alle 1300 in Spagna, tra contadine e baronesse, bionde e brune, grassotte e piccine, «purché porti la gonnella». Le mie considerazioni si spostano, come si vede, sul costume, e la paradossale vicenda di Giambruno lo dimostra, mentre il tema affrontato da Serena riguarda invece, drammaticamente, il rovesciamento del potere profondo della donna nell'ambito familiare, alla luce del divorzio, e la mortificazione del maschio nella separazione della coppia. Eccone la sintesi: «Accade così che vengano emesse sentenze assurde che, nel particolare momento in cui viviamo, vanno spesso a penalizzare il genere maschile, riducendo molti padri di famiglia a condurre una vita miserevole, a mendicare il diritto a vedere i propri figli, senza alcun aiuto che non sia quello elargito dagli enti di carità, e finendo a volte a dormire per strada o in un'auto. Un mondo sommerso che riaffiora molto raramente, le cui vicende vengono spesso travisate dai mezzi di comunicazione, perché in contrasto con la cultura dominante, che ha deliberato che il maschio sia sempre e comunque l'oppressore e la donna la vittima da riscattare da anni di privazioni e schiavitù».

Le illuminanti considerazioni di Serena sono fondate su numerosi casi di discriminazione di padri separati e sulla tragica storia raccontata, carica di esperienza vissuta, e convalidano la lucida osservazione di Stanislaw Lec: «Siamo tutti uguali davanti alla legge, ma non davanti agli incaricati di applicarla».

Amara verità in tempi difficili.

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