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Da "mantegnù" a Senatùr. Così Bossi inventò la Lega

Il 12 aprile 1984 l’atto di nascita del partito. L’intuizione del malessere del Nord e i primi slogan: "Lombardo, taci"

Da "mantegnù" a Senatùr. Così Bossi inventò la Lega

Chi ha memoria del rappresentante di commercio Marino Moroni? E dell'architetto Giuseppe Leoni? E del dentista Emilio Sogliaghi? Eppure sono gli uomini che fecero l'impresa, i fondatori del partito che fra pochi gioni compirà quarant’anni e si vanterà di essere il più longevo fra quelli in parlamento.

Il Sogliaghi, in realtà, quel 12 aprile del 1984 entrò nello studio della notaia Franca Bellorini, a Varese, solo per far numero legale. Ma gli altri, il Moroni e il Leoni, erano sodali di un quarantaduenne senza impiego che si era messo in testa un’idea folle: quella di dare una casa politica al popolo del Nord, anzi del Nort come diceva lui. Si chiamava Umberto Bossi.

L’Umberto, che al suo paese era conosciuto come el mantegnù, il mantenuto, nello studio della notaia Bellorini entrò accompagnato dalla sua seconda moglie, la Manuela Marrone, che pure era di origine sicula; e dal cognato, il Pierangelo Brivio, un commerciante che aveva sposato la sorella del futuro senatùr, l’Angela Bossi. L’atto costitutivo della Lega Autonomista Lombarda, che diventerà Lega Lombarda nel 1986, porta quelle firme: nell’ordine, Marrone Manuela, Moroni Marino, Bossi Umberto, Brivio Pierangelo, Sogliaghi Emilio Benito Rodolfo. Fu registrato al tribunale di Varese il 19 aprile, spese di cancelleria lire 102.000.

Credo, anzi sono sicuro, che nessun giornale diede notizia di simil evento. Del resto la storia sfugge spesso alla cronaca. Sul Corriere della Sera del 24 marzo 1919 alla nascita dei Fasci Italiani di Combattimento, avvenuta il giorno prima in piazza San Sepolcro, erano dedicate sedici righe, tante quante erano state pubblicate, lì a fianco, per dar notizia del furto di alcuni sacchi di patate.

Ma così come Mussolini aveva fiutato il vento della storia, Bossi aveva fiutato quello del Nord. L’idem sentire, diceva lui, del popolo delle saracinesche, cioè dell’Italia del lavoro, anzi del laoro, come si dice dalle parti di Bossi, che sono poi il Varesotto, e cioè l’Insubria, quella parte di Lombardia che comprende anche le province di Milano, di Monza, di Como e in parte Lecco e Sondrio, e che parla dialetti non identici ma certo simili fra loro, assai più del mantovano o del bergamasco, che pure sono Lombardia.

Umberto Bossi veniva, per la precisione, da Verghera di Samarate, paesino sconosciuto direi alla totalità degli italiani, compresi gli appassionati di motociclismo, i quali non sanno che quell ’ M V messa prima di Agusta, e cioè l’azienda che produceva il celeberrimo bolide con cui Giacomo Agostini conquistò il mondo, altro non significa che Meccanica Verghera. E sempre lì, nella minuscola Verghera, al Caffè Teatro di Maurizio Castiglioni esordirono fior di comici, anche Aldo Giovanni e Giacomo, che agli inizi, lì a Verghera appunto, si facevano chiamare Galline vecchie fan buon brothers.

Ma nessuno come l’Umberto avrebbe mai dato tanto lustro a Verghera. E nessuno, a Verghera, ci avrebbe mai creduto. L’Umberto era, per tutti in paese, uno sfaccendato. La prima moglie l’aveva piantato perché aveva scoperto forse il più grottesco dei suoi bluff: e cioè l’essersi spacciato per medico, uscendo ogni mattina da casa con la borsa a soffietto, dando un bacio e dicendo ciao amore, vado in ospedale. Non è che non fosse medico, l’Umberto: non era neanche laureato.

Le aveva provate tutte: il cantante, perfino il politico: si era iscritto alla locale sezione del Pci e aveva provato a far da capopopolo organizzando una manifestazione contro il Cile di Pinochet, del quale a Verghera fregava il giusto. I comunisti, poi, avevano già i loro solidi punti di riferimento: Marx, Lenin, Stalin, Togliatti, Berlinguer. Insomma lì dentro l’Umberto non avrebbe toccato palla.

Ma che cos’è il genio?

Nel caso di Bossi fu il capire che c’era, nell’Italia ormai stagnante della Prima Repubblica, con la Dc che pareva immortale ma che era già putrefacente, un gregge senza pastore. Quello appunto del Nort, con la t. Quello del laoro, senza la v. Quello che il Paese lo mandiamo avanti noi. Bisognava raggiungere quel popolo, fargli sapere che aveva trovato qualcuno che finalmente avrebbe mandato un segnale a Roma, un segnale che si poteva sostanzialmente condensare in sei parole: e che cazzo, lavoriamo solo noi?

Cominciarono così, il Bossi, il Leoni e il Brivio eccetera, a inviare un giornale, che si chiamava Lombardia autonomista, nelle case di quelli che avevano un cognome da razza pura. Chiamandomi Brambilla, fui fra i destinatari. Ricordo un numero che in prima pagina aveva il disegno di un volto imbavagliato, con il titolo Lumbard tas, lombardo taci. Diceva il pezzo che nelle nostre scuole ormai comandavano i professori meridionali, a colpi di jatevenne e jammucenne. E siccome, diceva il Bossi, «ccà nisciun è fess», è ora che si torni a parlare in lumbard.

Anonimo se non fallito fino ai quarant’anni abbondanti, l’Umberto diventò un leader. Non ebbe bisogno né dei giornali, che lo ignorarono a lungo, né delle tv. Il suo verbo correva di capannone in capannone, di fabbrichetta in fabbrichetta, di partita iva in partita iva, ma soprattutto di bar in bar. Era il bar, il suo teatro. Quello di Gemonio, dov’era andato ad abitare, e quello di Ponte di Legno, dove andava – ormai già politico famoso – a fare le vacanze. I giornalisti avevano cominciato ad andargli dietro, sapendo che per trovarlo bisognava, innanzitutto, dimenticare il giorno. Con la luce, l’Umberto dormiva. Era la notte il suo tempo. Si presentava al bar di Ponte di Legno verso le due per cenare: spaghetti in bianco e Coca Cola. Poi si metteva a giocare a calcetto. Una notte, saran state le quattro o le cinque, arrivò un gruppo di tifosi dell’Atalanta. Lo riconobbero. «Guarda, c’è l’Umberto!». Gli si avvicinarono e cominciarono a chiedergli di essere liberati al più presto. Se ne andarono gridando «Bergamo nazione / il resto è Meridione».

Ecco, il calcio. Le curve del Nord furono un altro spazio di propaganda ben più efficace di cento editoriali. C’era un accordo: quando si giocava una partita fra due squadre del Nord, entrambe le tifoserie per un tempo avrebbero cessato le ostilità e si sarebbero unite in un coro comune: «Ha ragione la Lega Lombarda / il terrone è una razza bastarda».

Ma c’era, o almeno a un certo punto arrivò, anche dell’altro, anche della sostanza. Ci furono professori, come Gianfranco Miglio, che capirono che il federalismo non è folclore.

Ci furono grandi giornalisti, come Giorgio Bocca e Massimo Fini, che capirono che con la Lega bisognava fare i conti, che i tempi stavano cambiando, che i giornali che trattavano Bossi e i suoi come dei pagliacci erano fatti da gente che non esce dal proprio salotto o dalla propria terrazza.
Bella o brutta, buona o cattiva, ma la Lega c’era. Era un’idea.

Che cosa sia rimasto, dopo quarant’anni, non saprei. Ho un ricordo di alcuni anni fa. Nicoletta Maggi, la segretaria di Bossi, mi fissò un’intervista con lui a Montecitorio. Il capo era ormai vecchio, stanco ed emarginato. Lo vidi di spalle, seduto in un corridoio della Camera, con il sigaro spento fra le labbra. «Umberto, è arrivato Brambilla», gli disse Nicoletta. «Brambilla... Brambilla...

È un nome dei nostri», sussurrò Bossi, la voce roca, gli occhi pieni di nostalgia.

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